Addio a Pelé, campione per l’eternità

La sua carriera la raccontano innumerevoli filmati e fotografie, ma sono le cifre, soprattutto, a parlare per lui. E le cifre dicono che Edson Arantes do Nascimento, per tutti Pelé, è stato il più grande calciatore di sempre. Ha festeggiato gli 82 anni il 23 ottobre e purtroppo non gli è riuscito l’ultimo dribbling, ai danni di un tumore all’intestino che se l’è portato via per sempre.

Il mondo del pallone piange un campionissimo, un giocatore-artista, dal colpo geniale e spesso letale per l’avversario. Le cifre dunque: in dodici anni con la selezione brasiliana, dal 1957 al 1971 (via gli anni dal 1966 al 1968, quando aveva lasciato la nazionale) Pelé ha disputato quattro Mondiali (dal 1958 al 1970) e ne ha vinti tre: ’58, ’62 e ’70. Nessun altro calciatore è riuscito in una simile impresa e la contrapposizione tra l’asso brasiliano e l’argentino Diego Armando Maradona, che spesso infiamma i discorsi dei tifosi, sul piano contabile non ha senso. Se mi è consentito, non ha senso nemmeno in un discorso generale sui valori dei calciatori, mai paragonabili tra loro se appartengono a epoche diverse. Inutile anche chiedersi cosa ne sarebbe stato di Pelé qualora avesse giocato qualche decina d’anni dopo rispetto al momento in cui è stato protagonista: la risposta non c’è, non può esserci. Pelé era il fenomeno di quel tempo, senza se e senza ma.

Quando debuttò nel Mondiale svedese del 1958, a soli 17 anni, il brasiliano inanellò una serie di record: il più giovane calciatore a disputare una partita di Coppa del mondo, a realizzare un gol, una doppietta e persino una tripletta. Lo stesso Pelé, in un’intervista, ha definito quell’appuntamento «il Mondiale dell’incoscienza». Raccontava di aver giocato senza la minima pressione, in modo spontaneo, naturale.

Quattro anni dopo, in Cile, Pelé s’infortuna da solo durante la partita contro la Cecoslovacchia: il suo posto viene preso da Amarildo, che altrimenti non avrebbe mai giocato. Allora ogni titolare aveva un sostituto e Amarildo era la riserva di Pelé. Mentre tutto il Brasile piangeva per il suo fuoriclasse infortunato, il suo compagno un po’ se la rideva sotto i baffi per la straordinaria opportunità, un po’ se la faceva sotto pensando che se le cose fossero andate male, il Brasile non l’avrebbe mai perdonato.

Superata la delusione del ‘66 in Inghilterra, dove i difensori si sono sovente accaniti contro quello che era diventato O Rei (il Re) – Brasile fuori nelle eliminatorie, Pelé indebolito perché toccato ai legamenti del piede – i verdeoro vincono il Mondiale del ’70 in Messico battendo l’Italia in finale. E il piccolo Pelé, 173 cm di altezza, firma un gol di testa aggirando la guardia di Burgnich, dieci centimetri più alto di lui.

Nonostante abbia preso per mano il Brasile calcistico guidandolo verso traguardi prestigiosi, l’immagine di Pelé si è un po’ offuscata agli occhi dei suoi connazionali. Grandissimo sul campo, O’Rei nella vita privata ha ottenuto di tutto e di più, compresa una carica di ministro nazionale dello sport, ma a prezzo di stare sempre dalla parte dei potenti. Nel cuore del popolo brasiliano c’è più spazio per Garrincha, imprevedibile, genio e sregolatezza come l’anima del popolo verdeoro, che per un Pelé guardato con sospetto per il suo opportunismo e l’incapacità di smarcarsi dalla dittatura militare che governava il Paese quando il calciatore godeva di una popolarità che gli avrebbe consentito l’immunità anche se fosse andato contro gli interessi del governo.

E siccome i conti si fanno sempre alla fine, ecco il triste epilogo, col campione escluso nell’estate del 20124 da qualsiasi coinvolgimento nel Mondiale organizzato in casa. “Nessuno mi ha invitato” ha risposto Pelé a chi gli chiedeva il motivo della sua assenza dalle tribune vip.