Se già non lo è, è destinato a diventare un piccolo gioiello enogastronomico sospeso tra il lago e il cielo. Incastonato nel Relais Castello di Morcote, lo storico ristorante La Sorgente di Vico Morcote prende nuova vita, diventando di fatto un nuovo tassello della Tenuta Castello di Morcote, rinomata azienda vitivinicola famigliare, diretta da Gaby Gianini e dal marito Maurizio Merlo, che punta da anni sull’accoglienza autentica e su vini di qualità (biologici e biodinamici), tanto da essere ormai diventata una vera e propria destinazione nel panorama enogastronomico svizzero.

Gaby Gianini, Maurizio Merlo, lo chef Francesco Sangalli e il suo secondo, Mattia Bacchivini: un team che darà lustro al ristorante La Sorgente.

Il ristorante conta una ventina di coperti soltanto (vogliamo dirlo? Una premessa di qualità), suddivisi nelle due storiche sale o sul terrazzo con vista lago del Relais Castello di Morcote, edificio del XVII secolo, dove si può anche pernottare in una delle 12 camere, una diversa dall’altra.

Gaby e Maurizio per questa loro avventura hanno individuato un talento di sicuro avvenire, il giovane chef Francesco Sangalli che, come obiettivo, pone al primo posto la ricerca di prodotti di qualità del nostro territorio, scovati tra piccoli produttori locali, e impreziositi da tecniche di cottura molto accurate e mai banali, come la fiamma viva, il carbone e le affumicature (da provare il burro affumicato proveniente dall’alpe Vicania, una vera delicatezza). Il risultato finale si riscontro in un’alta cucina che rivolge un occhio al futuro, al sostenibile e verso le scelte più corrette per l’ambiente.

Due giovani chef ambiziosi scalpitano in cucina: Francesco Sangalli e Mattia Bacchiavini.

Le proposte della carta sono vivaci e inseguono la stagionalità, percorrendo i cambiamenti naturali e la disponibilità delle materie locali, dando valore alle realtà contadine ed al lavoro di persone autentiche. L’anima del ristorante La Sorgente, che prende il nome dalla fonte ubicata sulla sua incantevole terrazza panoramica, sono due ragazzi dal pedigree culinario di tutto rispetto: in primis lo chef Francesco Sangalli, nato a Brescia e cresciuto con la vocazione di cuoco nell’anima.

Spaghetto all’aglio nero, prezzemolo e missultin grigliato

 

Francesco inizia giovanissimo a muoversi tra pentole ed aromi, poi si diploma a 22 anni presso la prestigiosa Accademia di Cucina Italiana ALMA, come primo della classe. Dopo un’esperienza ai fornelli dello chef Gennaro Esposito, torna in Lombardia e cucina in diversi ristoranti stellati: al Piccolo Lago e da Cracco a Milano, poi in Ticino come sous chef al Concabella e infine come secondo chef al The View di Lugano, dove ha dato il suo contributo per l’ottenimento della prima stella Michelin del locale nel 2023.

Coniglio farcito servito con salsa alla spugnole e porro arrostito

Cucina genuina, con pochi fronzoli, lavorazione di prima mano degli ingredienti, anche perché la brigata è tutt’altro che esagerata: ad affiancare Sangalli c’è Mattia Bacchiavini nel ruolo di sous chef e pastry chef. Classe 1997, anche lui inizia presto, animato dalla sua grande passione per la cucina: si diploma all’Accademia ALMA e nel 2017 inizia il suo percorso approdando alla corte di chef Cracco, dove incontra Francesco Sangalli. Da quel momento la sua figura è per Mattia la principale fonte d’ispirazione. Lavora in diversi ristoranti stellati, finché arriva il grande salto quando viene chiamato dai fratelli Cerea, diventando chef pasticcere al Da Vittorio di Brusaporto (BG), 3 stelle Michelin. Oggi, il legame personale e professionale tra Mattia e Francesco si rinnova dando vita ad una cucina che si distingue per un’elaborazione di piatti che incantano vista, olfatto e palato. In sala accoglie i clienti il sorriso di Norman Summa, che grazie alla sua professionalità e alla sua cortesia è la premessa ideale perché questo giovane trio dia vita ad un ritrovo che saprà catturare l’attenzione di innumerevoli appassionati dell’arte enogastronomica.

Indirizzo
Portich da Sura 18, 6921 Vico Morcote, Svizzera
Telefono + 41 91 996 23 01
E-mail info@ristorantelasorgente.ch
Sito web www.ristorantelasorgente.ch

Nell’autunno/inverno 2024 la famiglia IGNIV si allargherà: Andreas Caminada aprirà uno sharing restaurant nel nuovo quartiere di Andermatt Reuss. Grazie all’apertura di “IGNIV by Andreas Caminada”, Andermatt conquista un altro fiore all’occhiello e si trasforma in un hotspot gastronomico alpino d’eccellenza. Ad Andermatt Reuss, Andermatt Swiss Alps AG sta progettando la realizzazione di un distretto commerciale e gastronomico sulla Furkagasse, il cui completamento è previsto entro la fine del 2024.

Il principale gestore sarà il ristoratore e chef tristellato del Cantone dei Grigioni, Andreas Caminada, che porterà ad Andermatt il suo concept IGNIV, aggiungendo un altro fiore all’occhiello al già eccellente panorama culinario di Andermatt. “Andermatt sta diventando una destinazione davvero attraente per lo stile di vita alpino e per le esperienze straordinarie che offre. Siamo particolarmente lieti di contribuire a questo risultato con la nostra Fine Dining Sharing Experience, esperienza di alta cucina condivisa, aprendo un nuovo IGNIV”, rivela Andreas Caminada. Raphael Krucker, CEO di Andermatt Swiss Alps aggiunge: “Andreas Caminada è perfetto per Andermatt. Combina l’alta cucina innovativa con l’ospitalità. Esperienza e collettività rimangono per lui gli aspetti più importanti, così come lo sono per Andermatt Swiss Alps”.

Il nuovo “IGNIV” celebra un concept oramai collaudato. Il nome retoromanzo che significa “nido” è sinonimo di momenti di relax e benessere con la famiglia e con gli amici e indica un menù variegato che viene servito al centro tavola per essere condiviso. La cucina contemporanea trae spunto dalla filosofia culinaria di Andreas Caminada: ispirandosi all’universo dei sapori, gli chef di IGNIV creano piatti fantasiosi da condividere, tradizionali e cosmopoliti allo stesso tempo. Con circa 60 posti a sedere nell’area fine-dining e nel bar, il nuovo ristorante rimarrà aperto all’ora di cena sette giorni su sette durante l’alta stagione, mentre per il resto dell’anno cinque giorni alla settimana. Elemento fondamentale dell’esperienza IGNIV è l’ambiente interno, ricreato dalla designer d’interni Patricia Urquiola partendo dall’immagine del nido e conferendo a ogni ambiente gourmet il proprio tratto distintivo. Ad Andermatt, Patricia Urquiola per la prima volta non progetterà soltanto il ristorante, ma si occuperà anche dell’interior design di 17 appartamenti di lusso, dei quali tre appartamenti con soppalco da 3 locali più servizi e 14 appartamenti da 3 locali più servizi.

L’inizio dei lavori di costruzione del palazzo è previsto per il mese di agosto 2023. In quell’occasione sarà annunciato anche il nome del palazzo stesso. Ogni edificio di Andermatt Reuss ha una propria struttura architettonica e un design interno personalizzato.

Il santo precetto degli appassionati di ostriche è che il mollusco vada mangiato unicamente nei mesi con la erre. Dunque da settembre ad aprile, compreso gennaio, perché quando si parla di ostriche il pensiero corre alla Francia, Paese che vanta una lunga tradizione nell’ostricoltura. E lì gennaio fa janvier…

Se c’è un periodo nel quale procurarsi delle ostriche anche al supermercato è facilissimo, questo è quello delle festività di fine anno, durante il quale anche i diffidenti si lasciano tentare, complice il concetto che lega il consumo di questo cibo all’immaginario erotico e alla tradizione gastronomica.

In verità, non è vero che nel corso dei mesi estivi non si possano consumare le ostriche, ma bisogna sapere che in quel periodo il mollusco si riproduce, approfittando di un mare più caldo, e diventa un po’ lattiginoso, il che a qualcuno a livello gustativo può procurare un po’ di fastidio. Nessun pericolo però per la salute, come per anni qualcuno ha cercato di far credere.

Questa storiella delle ostriche da consumarsi solo nei mesi con la erre nasce essenzialmente per due motivi: il primo legato alle condizioni igieniche e di trasporto del mollusco nel corso dell’Ottocento, che in estate non erano certo paragonabili a quelle che abbiamo oggi grazie alla possibilità di controllare la temperatura; il secondo che si rifà invece alla proibizione di raccogliere le ostriche durante il periodo della riproduzione, decisa da Re Luigi XIII nel XVII secolo, per proteggere le coltivazioni dall’impoverimento dei banchi a cui erano sottoposte a causa del largo consumo.

La Route de l’huître, intinerari per golosi e buongustai sulle coste della Bretagna.

Un po’ di storia

L’ostrica è comparsa milioni di anni fa e i primi ad allevarla furono i cinesi. Anche gli antichi greci sembra che ne fossero ghiotti, per non parlare dei romani. Verso la fine del ‘600 sono segnalate piccole coltivazioni nei pressi de La Rochelle in Francia, dove si allevava soltanto una specie, l’ostrica piatta (Ostrea edulis), ma eravamo assai lontani da un’idea di ostricoltura dai grandi numeri, che comincia solo dopo la metà dell’Ottocento, quando la riproduzione naturale delle ostriche era messa a repentaglio dal vasto consumo e sul bacino di Arcachon per le coltivazioni si cominciò ad importare ostriche dal Portogallo (Crassostrea angulata) dette ostriche concave (o huitres creuses).

L’ostrica portoghese era scarsamente considerata dai francesi e si diffuse alla grande per due motivi: dapprima perché un carico che stava andando a male venne scaricato in mare dal comandante di una nave che non riusciva ad attraccare per le cattive condizioni meteo. Le ostriche che sopravvissero trovarono buone condizioni sulle coste francese e proliferarono. Fu una fortuna per i coltivatori di Francia che amavano soprattutto l’ostrica piatta (detta anche Belon), la quale venne decimata da una malattia nel 1920/21. La portoghese prese allora il sopravvento, ma fu a sua volta vittima di un’epidemia negli anni ’70 del secolo scorso e la sua presenza venne integrata con quella di un’ulteriore varietà importata dal Giappone.

Per farla breve, oggi in Europa abbiamo a che fare con due tipi di ostriche, la piatta e la concava, e la Francia è il Paese maggiormente implicato nella loro produzione e commercializzazione, grazie a bacini di allevamento che si situano in sette zone: la Normandia, la Bretagna del Sud e quella del Nord, la Loira, le Marennes-Oleron, il bacino di Arcachon (nei pressi di Bordeaux) e quello del Mediterraneo situato nell’Etang de Thau poco lontano da Montpellier. I dati europei dicono che la produzione è al 70% francese, il 20% irlandese e il 10% italiana, proveniente grosso modo da due zone, quella sarda di San Teodoro e quella veneta situata sul Delta del Po, che produce una qualità eccellente denominata ostrica rosa per le particolari striature della conchiglia.

Ostriche appena raccolte e portate nei bacini di affinamento.

Per farle crescere ci vogliono anni

Premesso che parlare di ostriche è un po’ come parlare di vini, con denominazioni di origine, “cru” particolari, label assegnati dalle differenti zone di produzione, insomma, roba da intenditori, è importante sapere che prima di arrivare in tavola uno di questi molluschi deve crescere nell’acqua per anni. Tra i mesi di giugno e agosto le ostriche madri lasciano le piccole larve in balia della corrente e queste nel giro di due settimane si fissano su corpi duri presenti nel mare. Gli ostricoltori le catturano con degli speciali collettori (tegole, tubi di cemento, ardesie, conchiglie infilate su delle corde), sui quali una volta appiccicata la larva sviluppa la conchiglia. All’incirca dopo 8 mesi le piccole ostriche hanno raggiunto la dimensione di 4 cm e hanno bisogno di più spazio per svilupparsi. Dopo essere state separate una per una, perché altrimenti non potrebbero svilupparsi, le baby-ostriche vengono portate nei parchi marini, dove ingrassano e in tre o quattro anni, sempre dopo diradamento, sono pronte per essere commercializzate e consumate. Alcune però vengono ulteriormente affinate in bacini ricchi di plancton e in acque meno salate: sono definite “claire” o “fines de claire” e crescono meglio quando sfruttano le acque dolci di qualche estuario, come avviene nel distretto francese di Marennes-Oléron dove passa il fiume Seudre. Da qui arrivano quelle che gli intenditori definiscono le migliori ostriche al mondo.
La misura dell’ostrica, che concorre a determinare il suo prezzo, si fissa in calibri. Per le ostriche concave si va da 5 a 0, dove il cinque sta per un’ostrica che pesa tra 30 e 45 grammi (la meno pregiata) e lo zero indica invece una misura di oltre 150 grammi. Analogo discorso per l’ostrica piatta, dove il calibro 0 indica però un peso tra 80 e 90 grammi e dunque si va oltre, fino al triplo zero, che significa un peso tra 100 e 140 grammi.

Freschezza assoluta

È il presupposto necessario per poter mangiare le ostriche. E la freschezza assoluta si trova ad una sola condizione, ossia che l’ostrica sia viva al momento dell’apertura. Il consiglio è di comprare la confezione intera, che permette di verificare la data del confezionamento, invece delle ostriche singole che potrebbero essere state dimenticate dal pescivendolo.
Di regola, se le valve sono già aperte prima del consumo e nella conchiglia non c’è acqua è meglio buttarle per non incorrere in gravi problemi intestinali. Si capisce, dunque, che per vivere le ostriche necessitano assolutamente della presenza di un po’ d’acqua nella conchiglia e l’ostricoltore le allena a questo scopo, vuotando e riempiendo i bacini in concomitanza con le maree due volte al giorno. Quando non sono sott’acqua, le ostriche trattengono il liquido serrando le valve e in questo modo si preparano ad affrontare il viaggio che le porterà sulla tavola del consumatore. Quanto riescono a sopravvivere fuori dall’acqua? Da un minimo di dieci giorni a due settimane.

In questi contenitori lasciati a lungo in balia delle onde l’ostrica cresce fino a raggiungere le dimensioni adatte alla sua commercializzazione.

Mangiamole crude!

E come si mangiano allora questi prelibati molluschi che qualcuno ritiene afrodisiaci? Qui le opinioni divergono. Intanto c’è la categoria dei “crudisti”, quella secondo i quali un’ostrica va sempre e solo mangiata cruda. E se il galateo dice che andrebbero mangiate con una forchetta apposita (c’è quella per le ostriche, piuttosto piatta e con rebbi larghi), la maggior parte degli estimatori considera che la miglior soluzione sia quella di «succhiare» l’ostrica direttamente dal guscio, senza far troppo rumore. Poi ci sono i puristi, che considerano blasfemo qualsiasi condimento: si mangiano al naturale, punto e basta, senza masticarle. La maggior parte di noi però aggiungerà due gocce di limone e una spruzzata di pepe. Personalmente dico no al limone, che ne altera il gusto di mare, e sì al pepe, ma con moderazione. Poi c’è il metodo francese, da non trascurare, dato che in Francia sono veri intenditori: si assaggiano con scalogno marinato in aceto, pepe e in accompagnamento a pane tostato con burro salato. Napoleone le adorava condite con un’emulsione a base di poco olio, sale, pepe, succo di limone e Cognac. Quante? In genere se ne servono sei a testa, ma dipende dalla nostra voglia e dal nostro amore per un mollusco che non solo è simbolo di raffinatezza e ci porta il mare in bocca, ma divide profondamente: o lo si ama alla follia, o lo si detesta.
L’ostrica cotta? Certo, si può e ci sono infinite ricette in proposito. Negli Stati Uniti va di moda cucinarla sulla griglia, ma secondo me è un delitto. Durante le festività natalizie ho voluto riprovare una ricetta con le ostriche gratinate: il risultato è stato eccellente, la pietanza arrivata in tavola mi ha soddisfatto, ma il sapore dell’ostrica? Svanito, evaporato. Allora tanto vale utilizzare dei molluschi di minor pregio: le pur buonissime coquilles st. Jacques o cappesante, addirittura le umili cozze, che gratinate sotto un po’ di pan grattato misto ad aglio, scorza di limone ed un trito di prezzemolo, poi condite con un buon olio d’oliva e sale e pepe, garantiscono una riuscita spettacolare a prezzi da saldi.

Le coquilles saintes-jacques o cappesante (ma anche capesante) sono ottime alternative all’ostrica gratinata e costano meno.

 

Non solo con le bollicine

E il vino? Anche qui pareri divisi. C’è chi dice che le bollicine uccidono i sapori dell’ostrica e sia preferibile un bianco fermo, meglio se Muscadet e meglio ancora se Sèvre et Maine, un bianco della Valle della Loira.
È di questo avviso anche Anna Valli, presidente della sezione Ticino dell’Associazione Svizzera dei Sommelier Professionisti (ASSP). “Il Muscadet Sèvre et Maine è un vino che sta parecchio sui lieviti e ciò gli conferisce un bel corpo e un bel volume. Ha una grande sapidità e un tenore alcolico piuttosto basso. Il tutto si sposa bene con le ostriche, che danno una bella succulenza con una tendenza al dolce e una salinità molto pronunciata. Non solo, ma l’ostrica ha una persistenza olfattiva e dunque necessita di un vino di carattere, molto avvolgente” dice la sommelière. Anna non è donna da classico abbinamento con lo Champagne.
“Secondo me è un abbinamento cliché, che richiama il lusso, l’esclusività, ma occorre saper andare oltre. Lo Champagne, con la sua componente molto acida, confrontato con la salinità dell’ostrica tende a creare una sensazione metallica che a me non piace”.
Personalmente sono un po’ tradizionalista: a me l’abbinamento ostriche-champagne non dispiace, ma ci vogliono degli champagne un po’ rotondi, con tendenza al fruttato, non quelli con un’acidità troppo pronunciata, che darebbero fastidio.Se proprio vogliamo abbinare alle ostriche una bollicina, le alternative peraltro non mancano: un buon Franciacorta nella versione Saten, che è morbido e ha un finale dolce, ma anche un buon Pinot Nero dell’Oltrepo’, e perché no, qualche interessante proposta locale: anche in Ticino sappiamo produrre degli ottimi spumanti.

Anna Valli, presidente dell’Associazione Svizzera dei Sommelier Professionisti, sezione Ticino

“Se vogliamo essere sconvolgenti, proviamo ad abbinare un ottimo Moscato d’Asti con le ostriche” mi dice Anna Valli pensando di scandalizzarmi. Eh no: chi scrive, dopo essere stato ospite dei produttori del Moscato in Piemonte ed aver provato l’abbinamento, è un sostenitore dell’accoppiata Moscato-acciuga, che sembra strana, ma ci azzecca di brutto: chissà, magari il Moscato funziona davvero anche con l’ostrica, ma ammettiamolo, è necessaria una certa dose di coraggio…

Si dice Treiso e il pensiero corre subito al Barbaresco e alle dolci colline delle Langhe. Oppure a Beppe Fenoglio, che lì ambientò più d’un suo romanzo e in particolare “Una questione privata”. Una delle più antiche cantine di Treiso è l’azienda vinicola Lodali, fondata nel 1939.


A Bellinzona, all’ombra di Castelgrande e appena dietro il palazzo del Governo, in via Orico, una nuova realtà dell’enogastronomia della Capitale, il ristorante MoAn aperto coraggiosamente in piena pandemia (o quasi…) ci ha permesso di incontrare Walter Lodali, titolare dell’azienda fondata da suo nonno Giovanni e dal papà Lorenzo, e di entrare in contatto con la sua filosofia.

Ma prima di parlare del vino, due parole sul MoAn, che è ristorante e al tempo stesso enoteca e winebar e si prefigge di diventare punto d’incontro tra il mangiar bene e il bere meglio, richiamando gli appassionati del vino e della gastronomia con una serie di appuntamenti che permetteranno di scoprire nuovi sapori, colori e profumi. Il concetto del MoAn, una trentina di coperti in sala, più giardino e locale enoteca con tavoli che consentono agli ospiti di sedersi comodamente e abbinare buon cibo e a vini eleganti e sorprendenti, si deve alla passione di Monica Jean-Richard Albertoni e Andrea Bianchi, coppia nella vita e grandi appassionati di enogastronomia. Per realizzare il loro sogno, Monica e Andrea hanno puntato su un giovane chef, Salvo Sanfilippo, un trentenne nato a Bergamo da genitori siciliani e da ormai alcuni anni attivo in Svizzera. Sanfilippo si è fatto le ossa presso il celebre ristorante pluristellato “Da Vittorio” gestito dai fratelli Cerea a Bergamo e poi come fanno molti giovani cuochi per imparare l’arte ha girato mezzo mondo. A Bellinzona il giovane chef vezzeggia i suoi ospiti mettendo in campo le sue tre anime (quella siciliana della terra d’origine, quella bergamasca nella quale è cresciuto e quella ticinese sua terra adottiva) e privilegiando una ricerca accurata di prodotti del territorio. Oddio, se dici pesce di mare c’è poco da ricercare in Ticino e dunque Salvo non si pone limiti, a parte quello relativo al livello di qualità della materia prima. I suoi piatti sono decisi, hanno un taglio netto, deliziano gli occhi e poi il palato. Tra le delizie assaggiate, senza voler far torto ad altri piatti, il risotto Carnaroli al “caciucco moderno” e limone ti porta il mare in bocca, col crudo di pesce abbinato al riso; superbo il vitello al giusto rosa (una riedizione del piemontesissimo vitello tonnato); sapido e ben equilibrato un ragù di coniglio abbinato a paccheri cotti a puntino. Insomma, avanti così.

I vini della cantina Lodali

Ma torniamo ai vini e alla cantina di Walter Lodali, 44 anni, diplomatosi alla Scuola enologica di Alba. Quest’uomo tutto d’un pezzo gestisce – col sostegno fondamentale di mamma Rita – le vigne che arredano le pendici delle stupende colline di proprietà della famiglia e si affacciano tra Treiso e Roddi. Viti di Nebbiolo, in primis, ma anche di Chardonnay, Barbera e Dolcetto.

“La vite e l’ambiente sono il motore di tutto: senza la massima attenzione ed il rispetto per le radici in particolare e poi anche per rami, foglie e grappoli non si può avere un’uva che contenga la magia del grande vino” racconta Lodali, aggiungendo: “In cantina abbiamo rinnovato tutto utilizzando le tecnologie più avanzate, ma soprattutto semplificando al massimo: il buon vino nasce dall’uva migliore, nella trasformazione bisogna poi solo essere delicati e precisi cercando di rispettare il più possibile le caratteristiche del territorio. Insomma: poco uomo e tanta natura”.

 

La sua azienda si è continuamente evoluta e recentemente ha sentito la necessità di rinnovare anche la propria immagine. Ne è nato un nuovo logo, nel segno della continuità, perché racconta Walter, “non potevamo buttare via 80 della nostra storia”. Fatta, aggiungiamo noi, di vini di qualità, e di tanto amore verso il papà Lorenzo, prematuramente scomparso quando Walter era un bambino, e al quale è stata dedicata una linea di vini eleganti e in grado di esprimere grande finezza, che si chiama “Lorens”, il nome del papà in dialetto locale. Per le etichette di questa linea, dice Walter, “non solo è stata ridisegnata la cornice di una vecchia etichetta di Barbaresco, ma per il nome è stata ricreata, dallo studio di un tema scolastico del 1950, la calligrafia di mio papà”.

Oscar Farinetti nasce ad Alba il 24 settembre 1954. Creatore di Eataly, primo supermercato dedicato all’alta qualità italiana, in dieci anni ha aperto 40 punti vendita in Italia e nel mondo. Il suo ultimo progetto, inaugurato nel 2018 a Bologna, si chiama «Fico Eataly World»: 10 ettari dove trovano posto campi, stalle, 40 fabbriche, altrettanti punti di ristoro, botteghe e mercati per rappresentare la Fabbrica Italiana Contadina. L’ingresso a «Fico» è gratuito. Farinetti ha collaborato con l’Università degli Studi di Parma e la Bocconi di Milano per varie ricerche di mercato e ha pubblicato diversi libri sul tema dell’agroalimentare, ottenendo numerosi riconoscimenti. È un uomo d’azione, con ancora tanti progetti e tante idee da realizzare. Ho potuto incontrarlo e fargli raccontare un po’ di cose, per un articolo finito in un supplemento del Corriere del Ticino (“Il viso del vino”) nel settembre del 2019.

Ecco un estratto di quell’intervista.

Signor Farinetti, tanto per cominciare ci spiega cos’è Eataly e cos’ha di rivoluzionario?
«La cosa più rivoluzionaria è che Eataly è un messaggio semplice, addirittura banale, rivolto all’enogastronomia oggi più riconosciuta e importante al mondo, cioè quella italiana. Vogliamo rappresentare l’Italia per la sua enorme biodiversità agroalimentare che si è trasformata in biodiversità enogastronomica. L’idea è stata di creare luoghi molto grandi dove sia possibile comprare ciò che si può mangiare, mangiare ciò che si può comprare e studiare, imparare, in modo da tornare a casa e replicare ciò che si è assaggiato. Siamo stati i primi al mondo a integrare questi tre momenti: il mercato, la ristorazione e la didattica».

Perché la cucina italiana è la migliore al mondo?
«Intanto perché si basa su prodotti di alta qualità, ma più in generale perché è replicabile. La cucina francese è arrivata 150 anni prima della nostra, ma è stata inventata nei ristoranti, dagli chef, dunque è molto tecnica. La cucina italiana è nata dopo e a inventarla sono state le nostre bis bis bis nonne. È una cucina domestica, che si basa sul manuale di quel genio dell’Artusi, e regionale, che si affida ad una materia prima di qualità. Piatti molto semplici, dunque replicabili ed esportabili in tutto il mondo».

Già: una buona pasta, del pomodoro, dell’olio, un po’ di parmigiano e il piatto è fatto.
«Esatto, ma è importante che la gente faccia attenzione al prodotto che mette nel piatto. Oggi per esempio, in tempi di caporalato, guai a comprare pelati da quattro soldi: bisogna andare su un San Marzano DOP, o per restare in Ticino, su un pomodoro di qualità prodotto in zona».

Tutto bene, ma se non conosciamo direttamente il produttore come possiamo fidarci del prodotto venduto?
«Qui lei tocca uno dei temi fondamentali di questo momento storico: quello della fiducia. La fiducia è un sentimento umano primordiale, che distingue l’essere umano dalle bestie. Come si fa? Occorre farsi conquistare attraverso la verità. Noi per esempio cerchiamo di partire dalla terra, perché parlare di cucina significa narrare l’agricoltura, spiegare come il prodotto viene coltivato, poi raccontare la trasformazione, infine narrare la maniera di cucinarlo. Facendo questo, credo che noi, posso dirlo immodestamente, ci siamo dimostrati credibili e abbiamo conquistato la fiducia di milioni e milioni di clienti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone».

Per essere credibili bisogna anche avere una buona competenza…
«Dice bene. Prima bisogna essere seri, poi bisogna studiare e io e i miei collaboratori in questi primi quindici anni di Eataly abbiamo studiato come dei pazzi. La maggior parte dei nostri collaboratori, quelli che scelgono i prodotti e preparano i menù, sono tutti laureati all’università di scienze gastronomiche di Pollenzo».

Lei parlava di narrazione in merito alla cucina e i prodotti del territorio. È un altro aspetto importante o sbaglio?
«Un fatto non raccontato non esiste e dunque noi abbiamo anche cercato di raccontare il cibo. Lo «storytelling» è diventato fondamentale per farsi conoscere».

Come si concilia il desiderio di prodotti a km zero da parte di una larga fetta di pubblico con la qualità dei prodotti offerti da quella che comunque è grande distribuzione e, visti i numeri, deve per forza affidarsi alla grande industria alimentare?
«Il chilometro zero è una buona idea se viene però interpretata. Utilizza i prodotti base della tua terra se sono buoni, perché sarebbe stupido andare a prenderli da un’altra parte. Poi utilizza prodotti di stagione: non si mangiano le arance in estate e le fragole d’inverno perché arrivano dall’altra parte del mondo. Questo però non significa che non bisogna mangiare le grandi specialità che arrivano da tutto il mondo. Se voglio mangiare una grande arancia, dev’essere siciliana e per arrivare dove stiamo noi ci sono mille chilometri da percorrere. Sarebbe invece stupido se comprassi una carota siciliana, perché ce ne sono di ottime anche qui. Il km zero interpretato come autarchia totale, ossia mangia solo le cose prodotte nel tuo territorio, è una stupidaggine. Quindi dobbiamo spostare le eccellenze del mondo, perché se fermiamo la libera circolazione delle cose buone fermiamo anche la circolazione delle buone idee».

Tutto bene, ma se non conosciamo direttamente il produttore come possiamo fidarci del prodotto venduto?
«Qui lei tocca uno dei temi fondamentali di questo momento storico: quello della fiducia. La fiducia è un sentimento umano primordiale, che distingue l’essere umano dalle bestie. Come si fa? Occorre farsi conquistare attraverso la verità. Noi per esempio cerchiamo di partire dalla terra, perché parlare di cucina significa narrare l’agricoltura, spiegare come il prodotto viene coltivato, poi raccontare la trasformazione, infine narrare la maniera di cucinarlo. Facendo questo, credo che noi, posso dirlo immodestamente, ci siamo dimostrati credibili e abbiamo conquistato la fiducia di milioni e milioni di clienti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone».

Eataly esporta il made in Italy ed è presente in tutto il mondo, ma come vi regolate con i prodotti locali nelle vostre sedi all’estero?
«Quando apriamo una sede di Eataly a New York o Istanbul o San Paolo del Brasile, mesi e mesi prima cominciamo a setacciare il territorio alla ricerca di prodotti locali di qualità. Se su quel territorio trovo una grande farina o un grande latte, è stupido che io vi rinunci per far arrivare il prodotto dall’Italia. Sono stato criticato, ma ho detto e sono convinto che nel mondo si producano grani duri di altissima qualità e in certi casi anche più buoni di quelli italiani».

La grande distribuzione esercita costantemente una pressione al ribasso sui prezzi dei prodotti agricoli. Non finirà per doverne un giorno pagare le conseguenze?
«Temo di sì e in ogni caso di questa tendenza penso tutto il male possibile, perché la grande distribuzione non riesce purtroppo ad esprimere altra fantasia che il prezzo del prodotto. Il consumatore abbocca alle promozioni e ai “tre per due”, una vera stupidaggine perché non tiene conto che il cibo è l’unico prodotto che mettiamo nel nostro corpo e dunque deve essere di alta qualità. Se dobbiamo risparmiare, lo possiamo fare su altre cose. Compriamo allora prodotti di alta qualità che costano il doppio rispetto agli altri e magari ne consumiamo la metà, tanto pare che il 40% del cibo che compriamo lo buttiamo via». Siamo strani, noi esseri umani. Ci innamoriamo dei programmi di cucina in televisione, ma abbiamo ancora capito poco di come si deve mangiare. È d’accordo? «Però è sicuro che rispetto a quindici o vent’anni fa siamo migliorati. Il problema è che gli chef in tivù non parlano mai dei prodotti, ma della tecnica. Se usano un pezzo di carne non dicono da che tipo di allevamento deve arrivare, se aggiungono dell’olio al piatto non spiegano qual è il migliore. Spero che arriverà il giorno in cui si farà. Un prodotto sano fa meglio a noi perché è buono e se è buono sarà fatto senza utilizzare la chimica e dunque farà star meglio anche il mondo».

Ci parli del suo rapporto con Slowfood. Com’è nato? Come si concretizza?
«Io ho sempre fatto parte del movimento e ho sempre ammirato Carlin Petrini, il fondatore. Quando ho deciso di fondare Eataly, è stato il primo che ho chiamato per chiedergli un parere, dopo di che abbiamo stabilito un rapporto di consulenza. Ci sono persone di Slowfood che collaborano con Eataly per tutta una serie di valori che vanno dalla ricerca dei fornitori allo studio e all’analisi dei prodotti, fino alla narrazione e a operazioni promozionali che non sono fatte sui prezzi, come quella che abbiamo fatto in favore delle api».

Sarebbe?
«Che c’è un grosso problema nel mondo, la moria di api. E senza api non ci sarà più la frutta né buona parte delle verdure. Il progetto si chiama «Bee the Future»: si tratta di un impegno di tre anni nella riforestazione di 100 ettari in Italia con i fiori amati dalle api: l’obiettivo è riportare la biodiversità delle piante infestanti in quelle zone dove, a causa di metodi agricoli basati sull’alto rendimento dei terreni, sta scomparendo » Lei verrà in Ticino nei prossimi giorni, ma è di Alba, a due passi da noi e sicuramente conoscerà un po’ il nostro territorio. Che mi dice? «Che vivete in uno dei posti più belli del mondo e conosco anche il vostro fantastico Merlot, il quale ha conosciuto un successo straordinario e con gli anni è diventato sempre più buono. Ma so che producete anche dei formaggi eccellenti, cosa che del resto è normale, visto che siete una regione di montagna e il formaggio migliore è quello prodotto in montagna».

E che consiglio ci darebbe per cercare di propagandare questi prodotti?
«Quando si hanno cose straordinarie non bisogna tenerle nascoste, ma farle conoscere. E per farle conoscere bisogna raccontarle. Torniamo al discorso di prima, allo «storytelling». Io non so quanta gente del Nord Italia è a conoscenza del fatto che in Ticino si produce uno dei migliori Merlot al mondo. Raccontatelo! Avete la bellezza del paesaggio, un ottimo vino, ottimi formaggi, ci sono gli ingredienti anche per generare turismo, per fare arrivare da voi gente da ogni parte del mondo».