Negli scorsi giorni, il 25 di gennaio, cadeva il centenario della prima Olimpiade invernale, che venne disputata a Chamonix dal 25 gennaio del 1924 al 5 febbraio dello stesso anno.

Se il grande circo olimpico (e nei primi anni della sua storia fu davvero un grande circo, con gare improbabili e persino divisioni razziali nelle competizioni) prende avvio con i Giochi di Atene nel 1896, prima di un’edizione invernale serviranno quasi trent’anni, durante i quali fu fatta opera di persuasione nei confronti dell’ideatore dei Giochi, il barone De Coubertin, fondamentalmente contrario ad un’edizione invernale della competizione, benché il pattinaggio avesse già fatto la sua apparizione durante i Giochi di Londra nel 1908 e l’hockey, sempre più popolare, comparve nel 1920 ad Anversa.

De Coubertin era contrario a delle edizioni olimpiche invernali soprattutto per ragioni che oggi definiremmo di «audience»: riteneva insomma che non ci fosse grande interesse per gli sport della neve, mentre gli scandinavi erano preoccupati dal fatto che le loro celebri competizioni nordiche potessero perdere popolarità a vantaggio dell’Olimpiade. Aggiungiamo il fatto che, contrariamente a quel che accade oggi, lo sci alpino era considerato un parente povero dello sci: allora era il fondo a primeggiare, mentre discesa e slalom, peraltro non ancora codificati (lo sarebbero stati solo nel 1929) erano considerati un passatempo snobistico per gente benestante ed esibizionista.

L’Olimpiade invernale di Chamonix andò dunque in scena senza troppi entusiasmi e fu inizialmente catalogata come «Settimana bianca»: solo a Lisbona nel 1926 il Congresso del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) riconobbe retroattivamente la denominazione di «1. Giochi olimpici d’inverno» all’edizione francese, alla quale non partecipò nessun atleta ticinese. Le competizioni organizzate furono soltanto 16, altrettante le nazioni in gara per un totale di soli 200 partecipanti.
La Svizzera conquistò tre medaglie, due d’oro con la pattuglia militare e i bobbisti, l’altra di bronzo nel pattinaggio artistico.
Prima della grande abbuffata olimpica e degli scempi a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, i giochi invernali non potevano che svolgersi nel cuore delle Alpi, dove alcune cittadine si distinguevano sia a livello di accoglienza, sia di infrastrutture, che all’epoca erano tutte naturali. Non fu dunque per caso che la seconda edizione dei Giochi (1928), divenuti ufficialmente «Olimpiadi», venne attribuita a San Moritz, che vinse una strenua concorrenza tutta rossocrociata per vederseli attribuire, battendo Davos ed Engelberg e guadagnandosi di fatto una fama immensa che ha saputo conservare e sviluppare negli anni.

A San Moritz per la prima volta anche il Ticino conosce l’Olimpiade bianca, grazie alla presenza del fondista airolese Carlo Gourlauen (foto), capostipite di una generazione di sportivi provenienti dal nostro cantone che ad anni di distanza da quella partecipazione ha saputo regalare trionfi incredibili alla storia dello sport ticinese.

 

La Confederazione finanziò i Giochi tramite un credito di 100 mila franchi concesso al Comitato Olimpico nazionale, 40 mila dei quali destinati agli organizzatori grigionesi, 60 mila alle spedizioni olimpiche rossocrociate, invernale ed estiva.
A San Moritz sono presenti 25 nazioni e 464 concorrenti e l’ambiente è festoso. I Giochi si aprono l’11 febbraio e terminano il 20 dello stesso mese. Annota il cronista de «Il Dovere», che per la prima volta dà ampio risalto alle Olimpiadi con servizi giornalieri: «San Moritz si fa bella, si veste da festa. Guai ora se il tempo si mettesse a fare il broncio: guai per tutti, per il comune, per gli albergatori e per i privati».

In realtà, quella degli organizzatori engadinesi finisce per essere una battaglia contro le condizioni meteorologiche: la neve, il vento e poi il favonio rischiano di rovinare i Giochi.
«Tutto è occupato, quasi più nessun letto. San Moritz è una babilonia di lingue, di divise, di distintivi, un reggimento di delegati ed un esercito di fotografi. Si vive in un ambiente anormale, ognuno s’improvvisa critico sportivo, ex-campione e cala lezioni a destra e a manca. I pronostici? Moltissimi e tutti disinteressati!» scrive il giornale bellinzonese, aggiungendo che sono presenti «ospiti di marca: il Principe Nicola di Romania, il principe-consorte d’Olanda. Ah sì, San Moritz dei ricchi e dei gaudenti!» .

Occorrerà fare un salto lunghissimo nel tempo per trovare la prima medaglia rossoblù ai Giochi invernali: Sarajevo 1984, il trionfo di Michela Figini, allora appena diciottenne, nella discesa. «Michi» ritroverà il podio olimpico quattro anni più tardi a Calgary ottenendo l’argento in super-G, quindi la decisione di ritirarsi che non le permise di gareggiare per la terza volta ad Alberville nel 1992. Aperta la strada, arrivano ancora le bellissime medaglie di Natascia Leonardi-Cortesi nel fondo (bronzo nel 2002 a Salt Lake City, staffetta 4 x 5 km), Nicole Bullo (bronzo con la nazionale femminile di hockey su ghiaccio a Sochi nel 2014) e la tripletta di Lara Gut, oro in super-G e bronzo in gigante a Pechino nel 2022 e bronzo in discesa a Sochi nel 2014.

Insomma, tutto si può dire dell’Olimpiade invernale, tranne che sia stata finora avara con i nostri sportivi.

Ho letto sulla Gazzetta dello Sport, nel commento che accompagnava l’uscita di scena dell’Italia U21 dall’Europeo:
«Eravamo talmente preoccupati di controllare il forno per la cottura del “biscotto” tra Francia e Svizzera – e invece i Blues hanno fatto in pieno il loro dovere – che ci siamo dimenticati di segnare alla Norvegia».
E allora, se le cose stanno così, non possiamo che sentirci offesi da questi sospetti assolutamente infondati che chiamano in causa comportamenti estranei alla nostra cultura sportiva, e felici per questo anticipato ritorno a casa degli Azzurri, che segna un altro fallimento del calcio italiano (non solo l’eliminazione dall’Europeo, ma anche la mancata qualificazione alle OIimpiadi di Parigi del prossimo anno) dopo due Mondiali guardati in tivù.

Il “biscotto” è un’espressione curiosa, tutta italica (e siccome noi dobbiamo importare anche il peggio della cultura italiana siamo riusciti a far nostro pure questo termine), per dire che in campo sportivo un risultato è truccato. Insomma, due avversari si mettono d’accordo per danneggiarne un terzo e trarre vantaggio reciproco.

Capito? Di questo si preoccupavano gli azzurri alla vigilia del confronto con la Norvegia, ossia che Svizzera e Francia in qualche modo si mettessero d’accordo sul risultato, per passare il turno a scapito dell’Italia.
Che il calcio non sia un mondo popolato da santi e verginelle è pur vero (e qualche mela marcia l’abbiamo avuta anche noi), tuttavia è triste dover constatare che certa stampa e certi dirigenti italiani, evidentemente abituati a questo genere di intrallazzi (sbaglio se affermo che gli scandali calcistici nel campionato italiano sono all’ordine del giorno?), riescano a far galoppare la loro fantasia, fino a pensare che tutto il mondo è paese e quel che succede in Italia venga replicato in ogni parte del globo. La cultura del sospetto è un tarlo che purtroppo divora lo sport italiano, anche se va riconosciuto che, in patria, visto l’alto numero di coloro che se ne fregano delle regole ed eleggono la furbizia a virtù, ha qualche ragione d’essere.

Così, purtroppo, i consigli che sulle stesse pagine di quell’edizione della Gazzetta Arrigo Sacchi si prodigava di dare alla classe dirigente del calcio italiano, sembrano parole inutili, destinate a cadere nel vuoto più profondo. Chiedeva umiltà, Sacchi, consigliava di imboccare la strada del realismo, di puntare sui giovani, sulle idee, di fra crescere gli allenatori, di rinunciare ai calciatori a parametro zero «che magari sono calciatori ormai a fine corsa, che vengono da noi soltanto per strappare l’ultimo contratto».
La storia dice che i valori tecnici del calcio italiano sono indiscutibili, mentre ora l’evoluzione del mondo del pallone verso il business ha messo in dubbio il modello di sviluppo del calcio azzurro, uscito immalinconito da un 2023 che oltre all’eliminazione dall’Europeo U21 lo ha visto perdere una finale del Mondiale U20 e ben tre a livello delle coppe europee destinate ai club (senza contare il magro bilancio della Nazionale maggiore di Mancini che voleva arrivare in finale della Nations League e ha dovuto accontentarsi del terzo posto).

Sono comunque risultati importanti, che certo necessitano di conferme, ma testimoniano una sorta di ripartenza, avvenuta senza le farneticazioni riconducibili alle teorie dei complotti e dei sospetti, che non giovano proprio a nessuno. È sul piano tecnico, guardando in casa propria, che occorre ritrovare il filo del discorso.

 

Eravamo in molti a profetizzare il funerale del calcio italiano, diventato fragile economicamente nel contesto delle cinque leghe calcistiche più importanti d’Europa, periodicamente toccato da scandali e scandaletti, incapace di valorizzare i suoi talenti con grave pregiudizio della nazionale guidata da Roberto Mancini. Sono numerosi i libri che, conti alla mano, prevedevano il crollo dell’industria del pallone tricolore.

Invece succede che nemmeno ai tempi del grande splendore, quando la Serie A era l’Eldorado del calcio mondiale nel decennio tra il 1990 e il 2000, l’Italia era riuscita a portare cinque squadre nelle semifinali delle coppe europee e addirittura tre in finale, l’Inter in Champions, la Roma in Europa League e la Fiorentina nella Conference. Come nel 1990, l’Italia può dunque sognare il successo in tre coppe europee (allora il Milan si impose in Champions, la Sampdoria in Coppa delle coppe e la Juve in Coppa Uefa contro la Fiorentina).

Alzi la mano chi è in grado di fornire una spiegazione razionale su questo ritorno in grande stile del calcio tricolore, dopo tante stagioni di anonimato.

Forse una chiave di lettura potrebbe essere individuata nella constatazione che la squadra campione d’Italia, il Napoli, e la Lazio che per il momento occupa il secondo posto in campionato, sono state eliminate nelle competizioni europee allo stadio dei quarti e rispettivamente degli ottavi di finale. Vuoi vedere allora che i grandi club del Nord, come l’Inter, il Milan e la Juve, cammin facendo si siano un po’ disinteressate ai destini del campionato per varie vicende, concentrando i loro sforzi unicamente sulle competizioni continentali?

È evidente a tutti che contrariamente ai club inglesi e spagnoli, quelli italiani non possiedono la forza economica per allestire praticamente due rose, ciò che oggi è necessario per poter coltivare l’ambizione di far bella figura sia in campionato, sia in Europa. Quando la differenza di valore tra titolari e sostituti è molto grande, giocando ogni tre giorni da qualche parte si finisce per soffrire: o si esce dall’Europa, oppure si paga dazio in campionato.

La Streif di Kitzbühel: terribile, angosciante al punto che qualche discesista una volta arrivato nella casetta dalla quale ci si lancia sulla pista decide di non provarci nemmeno. Uno che lì si è sempre trovato a suo agio, tanto da essere chiamato il re della Streif, è Didier Cuche, oggi quarantottenne, salito cinque volte sul gradino più alto del podio (nessuno come lui).

Proprio sulle nevi di Kitzbühel, nel 2012, Cuche annunciò che avrebbe messo fine alla sua immensa carriera. Il neocastellano però non interruppe bruscamente la stagione: arrivò sino alle finali di Schladming con ancora tanta fame di vittorie, e deliziò il pubblico che assistette alla sua ultima gara, un gigante, scendendo con un paio di sci di legno e una tenuta d’epoca. Fu uno spettacolo straordinario: ad ogni porta, “Didi” si fermava per ricevere l’abbraccio degli allenatori e degli addetti alla pista, un addio consumatosi dentro un tripudio di emozioni.

Stavolta le cose andranno in maniera differente: il trofeo dell’Hahnenkamm coinciderà con il ritiro di Beat Feuz, un altro grande campione della discesa, ma Beat lo spettacolo lo farà onorando la Streif come ha sempre fatto, battendosi per la vittoria fin da quando lascerà il cancelletto della partenza.

Chissà quali sentimenti matureranno nel profondo del suo io, sapendo che una volta sopravvissuto all’inferno della Mausefalle, dello Steilhang e di tutto quel che segue fino al traguardo, non ci sarà più un’altra volta, la possibilità di godersi una discesa da questa montagna incantata tutto solo, immerso dentro una bolla fatta di timori ed entusiasmo, davanti a 60 mila spettatori che trattengono il fiato e urlano il tuo nome.

Ogni atleta s’immagina la propria uscita di scena dallo sport d’élite in maniera differente: Cuche e Feuz in questo senso non sono simili, così come sono stati distanti nella maniera di gestire la propria carriera. I punti in comune tra i due sono stati i grandissimi risultati raggiunti, l’immenso carisma e il rispetto dei colleghi guadagnato sul campo, l’affinità nel modo di portare al traguardo lo sci, con una leggerezza e una delicatezza che nessun avversario riesce a mettere in pista (pensiamo alla “brutalità” che si portava dietro Hermann Maier; o alla sciata di forza di uno come Dominik Paris), una centralità ed un equilibrio che ha permesso ad entrambi, nella seconda parte della carriera e dopo un inizio niente affatto tranquillo, di evitare grandi cadute e brutti incidenti.

Per il resto, Didier Cuche era un maniacale perfezionista che non lasciava davvero nulla al caso e viveva una vita quasi da asceta.

L’ex-calciatore Johan Vogel raccontò una volta di essere stato a Londra con Cuche, era nel 2011, sorprendendosi del fatto che lo sciatore neocastellano non si concedesse nemmeno una birra e andasse sempre a letto presto.

Di Beat Feuz si raccontano invece storie che forse sono davvero soltanto storie e contribuiscono però ad alimentare la sua fama. Un po’ come succedeva ai tempi con Roland Collombin (chissà quanti lo ricordano ancora?) del quale si diceva che prima di lanciarsi in pista si beveva un bicchiere di Fendant…

Feuz, piccolino e tracagnotto, non ha mai avuto un fisico da vero atleta: si racconta che  prima di una gara non disdegni di mangiare la fondue o una pizza, che vada matto per la banana split. Insomma, tutto tranne che un atleta modello, anche nell’approccio con la gestione del materiale, migliorata nettamente solo dopo essere arrivato alla Head. Verità o leggenda? In fondo a noi non importa: Beat, un vero gentiluomo, ci ha regalato gioie ed emozioni immense e merita tutto il nostro rispetto, anche a fronte di dicerie che non fanno altro che ingigantire la sua leggenda. Avendolo frequentato un po’ sulle piste, durante competizioni importanti, ci resta il gradito ricordo di un atleta e di un uomo gentile, disponibile e professionale nel suo rapporto con i giornalisti.

La sua carriera la raccontano innumerevoli filmati e fotografie, ma sono le cifre, soprattutto, a parlare per lui. E le cifre dicono che Edson Arantes do Nascimento, per tutti Pelé, è stato il più grande calciatore di sempre. Ha festeggiato gli 82 anni il 23 ottobre e purtroppo non gli è riuscito l’ultimo dribbling, ai danni di un tumore all’intestino che se l’è portato via per sempre.

Il mondo del pallone piange un campionissimo, un giocatore-artista, dal colpo geniale e spesso letale per l’avversario. Le cifre dunque: in dodici anni con la selezione brasiliana, dal 1957 al 1971 (via gli anni dal 1966 al 1968, quando aveva lasciato la nazionale) Pelé ha disputato quattro Mondiali (dal 1958 al 1970) e ne ha vinti tre: ’58, ’62 e ’70. Nessun altro calciatore è riuscito in una simile impresa e la contrapposizione tra l’asso brasiliano e l’argentino Diego Armando Maradona, che spesso infiamma i discorsi dei tifosi, sul piano contabile non ha senso. Se mi è consentito, non ha senso nemmeno in un discorso generale sui valori dei calciatori, mai paragonabili tra loro se appartengono a epoche diverse. Inutile anche chiedersi cosa ne sarebbe stato di Pelé qualora avesse giocato qualche decina d’anni dopo rispetto al momento in cui è stato protagonista: la risposta non c’è, non può esserci. Pelé era il fenomeno di quel tempo, senza se e senza ma.

Quando debuttò nel Mondiale svedese del 1958, a soli 17 anni, il brasiliano inanellò una serie di record: il più giovane calciatore a disputare una partita di Coppa del mondo, a realizzare un gol, una doppietta e persino una tripletta. Lo stesso Pelé, in un’intervista, ha definito quell’appuntamento «il Mondiale dell’incoscienza». Raccontava di aver giocato senza la minima pressione, in modo spontaneo, naturale.

Quattro anni dopo, in Cile, Pelé s’infortuna da solo durante la partita contro la Cecoslovacchia: il suo posto viene preso da Amarildo, che altrimenti non avrebbe mai giocato. Allora ogni titolare aveva un sostituto e Amarildo era la riserva di Pelé. Mentre tutto il Brasile piangeva per il suo fuoriclasse infortunato, il suo compagno un po’ se la rideva sotto i baffi per la straordinaria opportunità, un po’ se la faceva sotto pensando che se le cose fossero andate male, il Brasile non l’avrebbe mai perdonato.

Superata la delusione del ‘66 in Inghilterra, dove i difensori si sono sovente accaniti contro quello che era diventato O Rei (il Re) – Brasile fuori nelle eliminatorie, Pelé indebolito perché toccato ai legamenti del piede – i verdeoro vincono il Mondiale del ’70 in Messico battendo l’Italia in finale. E il piccolo Pelé, 173 cm di altezza, firma un gol di testa aggirando la guardia di Burgnich, dieci centimetri più alto di lui.

Nonostante abbia preso per mano il Brasile calcistico guidandolo verso traguardi prestigiosi, l’immagine di Pelé si è un po’ offuscata agli occhi dei suoi connazionali. Grandissimo sul campo, O’Rei nella vita privata ha ottenuto di tutto e di più, compresa una carica di ministro nazionale dello sport, ma a prezzo di stare sempre dalla parte dei potenti. Nel cuore del popolo brasiliano c’è più spazio per Garrincha, imprevedibile, genio e sregolatezza come l’anima del popolo verdeoro, che per un Pelé guardato con sospetto per il suo opportunismo e l’incapacità di smarcarsi dalla dittatura militare che governava il Paese quando il calciatore godeva di una popolarità che gli avrebbe consentito l’immunità anche se fosse andato contro gli interessi del governo.

E siccome i conti si fanno sempre alla fine, ecco il triste epilogo, col campione escluso nell’estate del 20124 da qualsiasi coinvolgimento nel Mondiale organizzato in casa. “Nessuno mi ha invitato” ha risposto Pelé a chi gli chiedeva il motivo della sua assenza dalle tribune vip.

Per quanto i potenti lo manipolino, il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto. Dove meno te l’aspetti salta fuori l’impossibile.  Due frasi per le quali ci sarebbero volute le virgolette: infatti, costituiscono una citazione presa a prestito dal grande scrittore sudamericano Eduardo Galeano (1940-2015), che le ha consegnate al suo volume «Splendori e miserie del gioco del calcio» (1997).  

Chi ha visto Real Madrid-Manchester City l’altra sera non potrà fare a meno di concordare: il calcio continua a essere l’arte dell’impossibile e le reti firmate da Rodrygo a cavallo del novantesimo minuto ne sono l’esempio lampante. Spezzato il sogno di rivincita di Pep Guardiola, il quale ha conquistato tutto a livello nazionale col City – società che ha speso 2,2 miliardi di euro in trasferimenti dal suo arrivo nel 2016 – ma non ha mai vinto la Champions League in sei tentativi con lo stesso City, mentre non è riuscito a conquistare il titolo in tre stagioni alla guida del Bayern Monaco. Il tecnico spagnolo non solleva il trofeo dal 2011, quando ha vinto la sua seconda Champions in tre anni insieme a Lionel Messi al Barcellona. Una vera maledizione, che rischia – come scrivevano dopo la partita alcuni giornalisti inglesi – di avere un peso psicologico notevole e di perseguitare il tecnico per tutta la vita. Tra l’altro, l’eliminazione per Guardiola dev’essere stata ancora più dolorosa perché avvenuta a vantaggio del Real Madrid, un avversario storico per uno come Pep, il quale ha passato una vita con cucita addosso la maglia dei rivali del Barcellona ed è un sostenitore dell’indipendenza della Catalogna.  

I gol di Rodrygo e il rigore trasformato con una lucidità e una freddezza da far paura da parte di Benzema, ci hanno evitato la terza finale tutta inglese in quattro anni e questo è un bene per il calcio europeo, ormai devastato dalla potenza delle società che abitano la Premier. Un campionato che per il triennio 2022-25 è riuscito a garantirsi qualcosa come 12,4 miliardi di euro di diritti televisivi, suddivisi tra ricavi nazionali e internazionali. Poco più di 4 miliardi a stagione da dividersi fra i club, col vincitore del titolo che incasserà 210 milioni, ma con l’ultima della classe che ne porterà a casa 126, ossia più di quel che incasseranno i campioni di Spagna, Germania, Italia o Francia. Come si potrà garantire una sana concorrenza tra club europei nei prossimi anni? «La Premier attirerà tutti i migliori talenti in circolazione sui campi di calcio» dice quasi sconsolato Andrea Agnelli, presidente della Juventus, uno dei principali sostenitori della Superlega europea, che di fatto esiste già e ha passaporto inglese.  

Stiamo assistendo ad una sorta di paradosso: nel corso dell’imprevedibile semifinale dell’altra sera – che ci ha confermato quanto sia affascinante e imprescindibile questa formula delle coppe europee con partite di andata e ritorno – abbiamo fatto il tifo per il Real Madrid contro il City, nella convinzione che sia giusto sostenere chi ha meno potere economico, il «debole» opposto al «forte». Ma stiamo parlando del Real Madrid, a sua volta una potenza economica, una delle società che sino a pochi anni or sono figurava tra le protagoniste assolute del calcio mercato! 

Infatti, la squadra diretta da Carlo Ancelotti il 28 maggio a Parigi disputerà la sua 17.ma finale di Champions League (ne ha vinte 13), mentre il Liverpool giocherà la decima finale della sua storia e cercherà di prendersi la rivincita sul 3-1 rimediato dal Real nel 2018 (c’è un’altra finale tra le due squadre, nel 1981 s’impose il Liverpool per 1-0). Da qualsiasi parte la si guardi, quella in arrivo si annuncia davvero come una finale meraviglia. 

Tu chiamalo, se vuoi, il fascino maledetto del ciclismo. Uno sport capace di sopravvivere alle nefandezze, di farsi perdonare ripetutamente le porcherie nascoste nel suo vaso di Pandora, dal quale, quando qualcuno decide di scoperchiarlo, escono tutte le brutture dello sport.

Eppure… Eppure il mondo della pedivella sopravvive a se stesso, ai suoi mali, ai suoi imbrogli, crea e distrugge campioni e miti dei quali il pubblico continua ad innamorarsi come se non fosse mai successo nulla, come se il ciclista fosse un’anima candida e innocente. La storia sembra non aver insegnato nulla agli innamorati di questo sport, che a dispetto delle inchieste, delle prove e delle provette che escono (uscivano?) dopo ogni inchiesta e ogni perquisizione, riesce a tirar dritto per la sua strada, corteggiato dagli sponsor (qualche nome importante si è ritirato, ma il ricambio è assicurato e il carrozzone va avanti) e dall’amore smisurato di un pubblico pronto a perdonare tutto ai suoi beniamini e deciso più che mai a lasciarsi ipnotizzare dalla magia che emanano fughe, sprint, giochi di squadra e salite da togliere il fiato e annebbiare il cervello.

Se il ciclismo è un romanzo ammaliante e ricco di sorprese che manco ti puoi immaginare, è altrettanto vero che uno dei capitoli più belli di questo romanzo è rappresentato dal Tour de France, che in questi giorni rende più sopportabile la calura dei nostri pomeriggi. Senza voler essere blasfemi e rinnegare il fascino del calcio femminile che in Inghilterra si gioca il titolo europeo, il Tour è l’evento sportivo televisivo dell’estate. È l’appuntamento da non mancare, sia nelle battute iniziali, quando attraversa la placida Danimarca e ci regala le “gesta” dell’improbabile “grimpeur” danese Cort Nielsen che festeggia con enfasi il suo primato nella classifica degli scalatori, dopo essere passato davanti a tutti su un paio di collinette che non darebbero fastidio nemmeno ai cicloturisti della domenica, sia quando le cose si faranno serie, sulle Alpi, sui Pirenei, ma anche sulle strade del Nord coi loro terribili pavés.

Lo spettacolo del Tour è uno spot sapientemente studiato da una regia attenta ad ogni dettaglio. Lo sport travalica la sua dimensione agonistica per abbracciare la bellezza del paesaggio e fondersi in una rappresentazione affascinante, di fronte  alla quale non restano indifferenti nemmeno le persone che col ciclismo hanno un rapporto superficiale, ma che al cospetto delle immagini trasmesse dalla tivù non possono evitare di sognare un viaggetto in questo o quell’angolo di Francia.

A chi scrive, per dire, è venuta una voglia matta di Danimarca assistendo ai primi giorni della corsa, a conferma di quanto sia attrattiva la vetrina del Tour (che raggiunge picchi del 60% di share in tv), per avere la quale chi ospita le prime fasi della manifestazione (300 candidature all’anno) deve sborsare cifre molto importanti, decisamente più alte di quelle che una località deve pagare per avere una partenza (200 mila euro) o un arrivo (300 mila). Quello che in Francia chiamano il Gran Départ (due o tre giorni di corsa in un Paese lontano dalla patria della gara) economicamente fa storia a sé, ma non è detto che i soldi siano tutto per accaparrarsi il gran ballo iniziale. Christian Prudhomme, il patron del Tour, spiega infatti che l’assegnazione viene fatta anche sulla base di criteri sportivi: dove non c’è passione per il ciclismo, inutile pensare di poter ospitare la manifestazione solo per farsi pubblicità. Infatti, prendendo come esempio Copenaghen, la strada era tutta in discesa, la capitale danese essendo conosciuta come la città della bicicletta e la Danimarca una nazione in cui il ciclismo è molto popolare.

22 marzo 2020

È una domenica che fa venire il magone, grigia com’è e da segregati in casa, e ci manca pure la sua rubrica, che da quasi quarant’anni la domenica ci teneva compagnia su Repubblica. Dove andranno ad abbeverarsi adesso i suoi fedelissimi?

C’è già molta nostalgia di te, Gianni Mura, che te ne sei andato senza far rumore lasciandoci orfani dei «Sette giorni di cattivi pensieri». Tu, che eri l’indiscusso condottiero del popolo dei Senzabrera, ci hai mollato in un momento così difficile dando vita di fatto alla generazione dei Senzamura.

Scommetterei che ti saresti divertito sapendo che avremmo coniato questo termine e da quel pozzo di scienza che eri, una vera enciclopedia delle parole, ci avresti fatto notare che alcune espressioni a volte possono assumere significati buffi: preso così, estraniato dal contesto, Senzamura ha una valenza positiva, esprime un concetto di libertà, quella libertà sulla quale hai impostato tutta la tua vita e la carriera giornalistica, sempre dimostrando profondo rispetto per gli altri.

Ammesso che, come ripeteva un mio vecchio caporedattore, il giornale del giorno dopo serva solo ad avvolgere l’insalata (e con questo voleva insegnare ai giovani a relativizzare, a non montarsi la testa per un articolo) non è da eretici affermare che il valore specifico dei testi pubblicati dai media dipenda da chi li firma e i «pezzi» certificati Mura avevano la capacità di sopravvivere alla fugacità del momento, di stamparsi dentro il nostro cuore, di diventare memoria viva, soprattutto per chi, ora già in età matura, esercita questo mestiere. Gianni Mura era una luce, il faro che illumina la notte, il porto sicuro. Il suo italiano era melodia e poesia, roba che quando uno che si definisce suo collega lo leggeva, poteva solo sentirsi piccolo e inadeguato, soprattutto sapendo che spesso i suoi articoli migliori erano dettati a braccio.

Gianni era un uomo apparentemente burbero, con la faccia scontrosa: nascondeva una timidezza che si scioglieva al primo approccio, meglio ancora se seduti a tavola a gustarsi qualche prelibatezza gastronomica e un buon bicchiere di vino. Lui amava i rossi, anche i nostri Merlot ticinesi, e siccome non conosceva troppo le mezze misure, detestava il rosé.

Ha raccontato il calcio e il ciclismo come nessuno e i suoi resoconti sulle tappe del Tour de France, probabilmente la manifestazione sportiva che amava di più, sono autentiche perle che escono dal contesto giornalistico per sconfinare nell’epica della narrazione.

Un po’ tutti lo consideravano l’erede di Giovanni Brera e lui sapeva di esserlo, pur avendo percorso strade diverse. Si era inventato uno stile tutto suo che gli permetteva di giocare delicatamente con le parole tirate fuori da un vocabolario senza limiti e da una cultura infinita, che spaziava dalla letteratura all’arte e alla musica e gli aveva permesso di avventurarsi anche nella narrativa, pubblicando alcuni romanzi che avevano ottenuto un buon successo.

Gli chiedevano sovente di immaginare cosa avrebbe scritto Brera dello sport attuale e Mura non si è mai sottratto all’esercizio: c’era una sorta di affinità elettiva tra i due e nell’interpretazione del pensiero breriano immagino che Mura esprimesse anche i suoi sentimenti, che non erano di sicuro entusiastici né per la dimensione assunta dal calcio e dal ciclismo (business, doping, perdita di identità), né per quella dell’attività giornalistica, troppo incline a spettacolarizzare il nulla a scapito del reale valore della notizia e in fuga dal suo habitat naturale, la carta.

Per Mura il vero giornalista era rimasto come l’oste di una volta, che portava in tavola antipasto, primo, secondo, formaggio e dessert, oltre ad un’abbondante porzione di vino. Oggi però viviamo nell’epoca del fast food dell’informazione, dove al cliente-lettore si serve di fretta «un’insalata di rucola e gamberetti perché il pane ingrassa, i salumi alzano il livello di colesterolo e il vino fa male».