Se ci chiedessimo qual è il vino adatto ad accompagnare le festività di fine anno di sicuro non riceveremmo una risposta univoca. L’intenditore direbbe «dipende», pensando – giustamente – che il vino si abbina al cibo e dunque la scelta è ampia, per non dire sconfinata. Però su un aspetto quasi tutti sarebbero d’accordo: non c’è festa senza bollicine e tra le infinite varietà dei brut e degli spumanti, l’eccellenza è ancora e sempre costituita dallo Champagne.
Un vino che si può anche bere a tutto pasto, dall’aperitivo al dessert, come ci ha confermato una serata trascorsa alla Locanda Orico, di proprietà del più longevo chef stellato del Ticino, Lorenzo Albrici, che è di casa a Bellinzona.
L’occasione si è manifestata festeggiando il bicentenario della nascita dello Champagne rosato nel 2018, quando Lorenzo Albrici ce lo ha proposto (in versione La Grande Dame 2006 di Veuve Clicquot) addirittura come accompagnamento di un filetto di vitello del Muotathal, cotto rosa e intero al forno, una vera delizia.
Troppo facile, invece, immaginare lo Champagne rosé sulle code di scampi scottate, servite su un cespuglio di insalatine insaporite ai calamaretti spillo trifolati; oppure su un pavé di rombo selvatico dorato adagiato in una crema di topinambur al caviale Osciètre, altri componenti della proposta d’alta scuola di Albrici.

 

Volete sorprendere i vostri famigliari o i vostri ospiti? Bene, allora seguiteci: vi raccontiamo la storia della nascita dello Champagne rosé, che come abbiamo detto ha visto la luce nel 1818, da un’intuizione di una donna, Madame Barbe-Nicole Clicquot, nata Ponsardin.
Questa donna straordinaria, figlia del sindaco di Reims, maritò il figlio del fondatore della Maison Clicquot, Philippe, che morì lasciandola vedova nel 1805. Barbe, forte e intraprendente, non si rassegnò a rimanere ai margini dell’impresa di famiglia, ma ne ereditò la direzione.

Aveva 27 anni e dovette battersi contro i pregiudizi e le leggi di allora, che avevano scarsa considerazione (eufemismo) della figura femminile. Nel 1814 la signora Clicquot riuscì ad aggirare il blocco continentale imposto anche alla Russia da Napoleone, mandando il suo Champagne a San Pietroburgo, dove fu accolto trionfalmente. Quattro anni più tardi, la signora ha un’intuizione che cambierà la storia del vino dei re, sin lì vinificato soltanto in bianco. Anzi no: perché c’era stato pure un tentativo di creare uno Champagne rosé e per farlo si aggiungeva al vino vinificato in bianco del succo di… sambuco. Una pratica abiurata da Madame Clicquot, la quale aveva gusti raffinati e grandi capacità degustative.

Delphine Laborde

E come nasce il primo rosato? La signora intuisce che un buon assemblaggio tra bianchi e rossi può dare ottimi risultati e allora vinifica uva rossa della miglior qualità, proveniente dalle vigne di Bouzy, nella Champagne, e invita i suoi enologi di allora a miscelare sapientemente bianco e rosso per esaltare profumi e sapori che, ancora oggi, caratterizzano i vini dell’azienda, rimasta fedele al metodo originale inventato da quella che tutti chiamavano «La Grande Dame», in onore della quale è stato proprio creato un  grande Champagne della marca.
«Da Veuve Clicquot elaboriamo sempre lo Champagne rosato assemblandolo al vino rosso secondo il metodo di Madame Clicquot inventato 200 anni fa. Questa nostra capacità di attenerci al metodo tradizionale ci permette di creare dei rosati dal gusto preciso, fruttato, intenso ed elegante» raccontava Delphine Laborde enologa presso Veuve Clicquot, che ha ben assimilato la filosofia di quella che si può ben definire la fondatrice della casa, almeno nella sua versione moderna.
Per ottenere una bottiglia di rosé, Veuve Clicquot mescola da 50 a 60 differenti crus, a partire dal Veuve Clicquot Brut Carte Jaune, composto da 50 a 55% di Pinot Noir, da 15 a 20% di Pinot Meunier, da 28 a 33% di Chardonnay e, infine, da un 12% di Pinot Noir de Bouzy (rosso). Inutile dire che oggi tutte le cantine più importanti che producono Champagne hanno anche una propria versione rosé, tanto che la produzione di questo segmento rappresenta quasi il 10% del totale. Se vent’anni fa il rosato era considerato soprattutto un vino per signore, oggi questo vino appassiona anche i maschietti e il suo gradimento è in vigorosa crescita. La produzione avviene in due modi: vinificando in rosa le uve rosse (rosé da macerazione) o assemblando vini bianchi e rossi (rosé da assemblaggio).

 

L’onore di aprire la prima bottiglia della nuova Cuvée des Sommeliers, annata 2017, non poteva che spettare ad Anna Valli, presidente dell’Associazione che rappresenta i sommeliers della Svizzera Italiana (ASSP). Sul suo volto, un largo sorriso, condiviso appena più tardi da tutti i convenuti presso l’azienda vitivinicola Tamborini per assistere alla presentazione di questa bottiglia, ormai un classico nell’ambito del panorama enologico cantonale. Merlot vinificato in purezza, affinato in barriques per 20 mesi, un vino molto ricco, non filtrato, che sicuramente saprà dare grandi soddisfazioni negli anni a venire, perché stiamo parlando di un Merlot capace di invecchiare bene, ma che già adesso è apparso convincente per la sua struttura, il suo equilibrio e la sua eleganza.

Anna Valli tra Claudio Tamborini (a sin.) e Piero Tenca

L’idea di realizzare una Cuvée dei Sommeliers è partita nell’ormai lontano 1990, nata dal desiderio di stringere il legame che unisce i produttori di vino ticinesi e i sommeliers, che sono gli ambasciatori del vino e dunque, di riflesso, anche di chi lo produce. Finora sono state prodotte dodici Cuvée e quella presentata ieri è l’ultima della serie.

Vinificato con sapienza dalla Tamborini Carlo SA e in particolare dal suo enologo di riferimento, Luca Biffi, questo vino dallo spirito bordolese, per dirla con Claudio Tamborini, è frutto della vendemmia che la grande famiglia dei sommeliers della Svizzera Italiana ha fatto il 17 settembre del 2017 nella storica tenuta Tamborini di Castelrotto, culla del Merlot ticinese.

In una splendida giornata, una novantina di persone aveva raccolto in poche ore 1500 kg di uva, dalla quale è nato questo vino che a quattro anni di distanza è pronto per il consumo.

Speciale, anche l’etichetta, che ricorda il luogo di provenienza dell’uva e riporta il simbolo storico dei sommeliers, il tastevin, piccola ciotola d’argento che veniva utilizzata per la degustazione del vino e portata al collo come emblema della confraternita.

La Cuvée 2017 è una produzione limitata a 400 bottiglie Magnum (1,5 litri) ed è destinata ai soci dell’Associazione regionale e di tutta la Svizzera, ai ristoratori e agli albergatori. Verrà inoltre presentata al concorso Meilleur Sommelier Svizzero che si terrà a Lugano il prossimo 10 ottobre e serve anche da biglietto da visita per l’ASSP ai concorsi internazionali di Sommellerie e in occasione di viaggi ufficiali all’estero.

L’enologo Luca Biffi che ha curato la cuvée dei Sommelier

Due ore di viaggio in auto dal Ticino ti catapultano in un mondo che offre un’incredibile varietà di paesaggi, la pianura coi suoi campi a perdita d’occhio, colline e vallate ricche di vigneti, alture ricoperte da boschi che in autunno regalano colori meravigliosi.

Siamo nell’Oltrepò più volte celebrato da Gianni Brera, un lembo di terra che si estende tra Pavia, Alessandria e Piacenza. Terra di vini e prelibatezze gastronomiche, perché l’Oltrepò si trova a sud del fiume Po, all’estremo confine della Lombardia con l’Emilia e la Liguria, ma pure col Piemonte, per cui da queste parti è possibile reperire anche il tartufo.

È di vini però che vogliamo parlare e senza voler far torto alla Bonarda, al Sangue di Giuda, alla Barbera o al Buttafuoco che vengono prodotti su queste colline, è il Pinot Nero che vogliamo celebrare, perché questo vitigno versatile nell’Oltrepò si declina con maestria in una bollicina elegante prodotta col metodo classico e in un rosso strutturato che regala sensazioni forti. Un solo vitigno, ma due anime distinte.

Anche se, come sostiene il direttore del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese Carlo Veronese “non si può identificare la produzione del nostro territorio unicamente col Pinot” data la numerosa varietà di vitigni coltivati, il Pinot può “rappresentare il minimo comun denominatore di questo territorio e promuovere una sua visione unitaria”. Della quale, sentendo molti produttori, nell’Oltrepò c’è veramente bisogno, per riscattare un recente passato enologico che ha forse vissuto un po’ troppo sugli allori e sulla vicinanza di Milano, una grande metropoli che ha alimentato il commercio a volte senza badare troppo alla qualità del prodotto.

L’Oltrepò pavese ha una storia secolare alle spalle e una vocazione enologica riconosciuta fin da prima di Cristo, messa a frutto dagli spumantisti piemontesi a partire dal 1800 e dai viticoltori locali ai giorni nostri.

Originario della Borgogna, dove si utilizza per produrre vini rossi, e coltivato anche nello Champagne come base spumante, il Pinot Nero è arrivato in Italia in tempi relativamente recenti. La raffinatezza e la versatilità delle sue uve ne fanno un vitigno ricercato, ma la delicatezza e le difficoltà della sua coltivazione lo rendono adatto solo ad aree particolarmente vocate. Con i suoi 3.500 ettari impiantati di Pinot Nero (su 13.000 complessivi di svariati vitigni), l’Oltrepò Pavese è il terzo produttore in Europa di Pinot Nero dopo le due regioni francesi sopracitate di Borgogna e Champagne.

La rinascita del Pinot Nero da queste parti passa anche dalla volontà di alzare sempre più l’asticella della qualità, promuovendo una coltivazione sempre più rispettosa dell’ambiente e delle esigenze del consumatore e portata avanti da aziende in buona parte a conduzione famigliare. Collaborare, scambiarsi esperienze, confrontarsi: sono argomenti all’ordine del giorno tra quella parte di produttori più avveduti che credono in una rinascita del settore vitivinicolo dell’Oltrepò.

La produzione delle bollicine col metodo classico sta vivendo una vera e propria rivoluzione, con un interesse crescente per la rivendicazione della Docg Oltrepò Pavese Metodo Classico.

Vinificato in purezza o con una piccola percentuale di Chardonnay (ma si parla di introdurre nel disciplinare anche il Pinot Meunier, tanto per gradire la formula champenoise), affinato a lungo sui lieviti (il La Piotta 80/90 2013 Pas Dosé Vsq ci rimane per 60 mesi, il Farfalla Cave Privée di Ballabio addirittura 96!), lo spumante di Pinot nero dell’Oltrepò si distingue per la sua eleganza, il buon tenore di acidità, una bollicina quasi sempre fine e persistente, una cremosità avvolgente e una bella profondità aromatica.

Se il tempo lavora bene sulle bollicine, lo stesso è in grado di fare sui rossi, vini vivaci e ben equilibrati. Il fronte dei produttori è variegato nel suo approccio con la vinificazione, che si esprime sia con invecchiamenti in botti di rovere di varie dimensioni, sia con la freschezza giovani nettari che hanno conosciuto soltanto l’acciaio.

 

Un po’ di Ticino nell’Oltrepò…

L’incontro coi produttori dell’Oltrepò a Casteggio ci regala anche scoperte curiose e interessanti. Quella con i proprietari dell’azienda agricola “La Piotta” per esempio, che dal 2005 è certificata biologica e ha la sua sede a Montalto Pavese. Fondata da nonno Luigi Padroggi nel 1985, l’azienda è stata portata avanti dai figli Gabriele e Mario, oggi affiancati dalla terza generazione rappresentata dai giovani Luca ed Enrico. Il nome ci incuriosisce, facciamo presente ai ragazzi che in Ticino una squadra di hockey su ghiaccio che rappresenta un unicum nel suo genere porta (almeno in parte) quel nome.

“Ambrì Piotta! Sì, lo sappiamo e qualche anno fa siamo stati contattati da un commerciante di vini ticinesi che ci ha parlato della squadra dicendosi interessato ai nostri vini. La cosa però è morta lì, non l’abbiamo più sentito”.

Paolo Verdi dell’omonima azienda a Canneto Pavese, appassionato di vino e di sci

Paolo Verdi dell’azienda Bruno Verdi a Canneto Pavese prima di diventare produttore di vini aveva un sogno: diventare sciatore. I suoi vini sono di qualità, la sua passione per gli sport invernali smisurata. Negli anni Settanta e Ottanta seguiva le gare di Coppa del mondo tramite la nostra televisione, che si poteva vedere senza problemi nell’area lombarda. Con lui rievochiamo non soli vecchi nomi dello sci elvetico, da Bernhard Russi a Rolland Collombin, da Walter Tresch a Heini Hemmi, senza scordare la Doris De Agostini o la Lise-Marie Morerod, ma anche i vecchi telecronisti della RSI: Paolo ricorda bene l’eleganza al microfono di Giuseppe Albertini e la competenza di Libano Zanolari, ma mi cita anche il nome di Tiziano Colotti, che di sci per la verità si era occupato poco o per nulla. Ma a Verdi non devono essere sfuggite nemmeno le partite di hockey dell’Ambrì e del Lugano…

 

 

Una nuova cantina concepita all’insegna della sostenibilità è l’ultimo tocco di classe che va ad impreziosire la Tenuta Castello di Morcote, autentico gioiello che sorge sulle terrazze a strapiombo sul lago Ceresio, nel paesaggio spettacolare del promontorio dell’Arbostora.
Quando si varca il cancello dell’azienda si entra in mondo che richiama ambientazioni lontane, tenute vitivinicole di grandi proporzioni, come se ne trovano in Francia o in Italia. Ecco, la nostra Toscana, il nostro Piemonte, possiamo ben dire di averlo qui sull’uscio di casa, dove la cura dei vigneti è estrema e i vini prodotti non temono il confronto con le etichette più blasonate del mercato.

Gaby Gianini

Di più: qui si respira anche la storia, perché al di là della presenza del castello – costruito dai Duchi di Milano nel XV secolo – la tenuta prima di passare nelle mani della famiglia Gianini (la comprò il nonno dell’attuale proprietaria nel 1939) era appartenuta a Giorgio Paleari, agronomo e direttore dell’Istituto agrario di Mezzana, uno dei fautori dell’introduzione del Merlot in Ticino, che proprio qui impiantò negli anni ’30 le prime barbatelle del vitigno che avrebbe salvato la viticoltura ticinese flagellata dalla filossera.
“Nonno Massimo raggruppò 150 ettari di terra in questo contesto paesaggistico unico” afferma Gaby Gianini, che rappresenta la terza generazione della famiglia e ha raccolto con competenza e orgoglio un’importante eredità, che intende proiettare nel futuro sposando una visione moderna e rispettosa dell’ambiente.
In questo contesto nasce così la nuova cantina – nel luogo dove sorgeva l’antico centro agricolo – alimentata interamente ad energia solare. Qui tutta la gestione è biologica certificata e da poco anche biodinamica. Utilizzando le tecnologie più all’avanguardia, le uve (la parte destinata a vigneto sul promontorio del castello ha una superficie di 7 ettari, l’azienda coltiva però vigna anche nel Mendrisiotto per un totale di 13 ha) vengono vinificate nel modo più naturale possibile, riuscendo così a fondere insieme innovazione e riti ancestrali.

Pionieri in Ticino già da quasi dieci anni nell’abbandono della chimica in vigna, l’obiettivo della Tenuta Castello di Morcote è di diventare un riferimento nel panorama vitivinicolo svizzero, abbracciando la scelta della sostenibilità e del rispetto della terra.
La nuova cantina vuole diventare luogo di accoglienza aperto all’enoturismo di alta qualità, in grado di competere anche con realtà internazionali e un luogo dove poter vivere un’esperienza diretta e autentica del fare vino, a contatto con la natura e la terra.
È interessante notare che in questo angolo di Ticino la figura femminile gioca un ruolo di primo piano: ad affiancare la proprietaria Gaby Gianini ci sono infatti due giovani enologhe, Emilie Gerbex e Benedetta Molteni, che curano la produzione di bottiglie di pregio come il Castello di Morcote (bianco e rosso), il Fuoco, il Bianca Maria e altre, privilegiando la varietà Merlot, ma anche Cabernet Franc, Chardonnay e Sauvignon blanc.
“Lo stile dei nostri vini si contraddistingue per la ricerca di armonia ed equilibrio. Il nostro obiettivo è creare vini eleganti, longevi, che sappiano parlare dei terroir da cui provengono” afferma Gaby Gianini.