L’Italia dei biscotti e la cultura del sospetto

Ho letto sulla Gazzetta dello Sport, nel commento che accompagnava l’uscita di scena dell’Italia U21 dall’Europeo:
«Eravamo talmente preoccupati di controllare il forno per la cottura del “biscotto” tra Francia e Svizzera – e invece i Blues hanno fatto in pieno il loro dovere – che ci siamo dimenticati di segnare alla Norvegia».
E allora, se le cose stanno così, non possiamo che sentirci offesi da questi sospetti assolutamente infondati che chiamano in causa comportamenti estranei alla nostra cultura sportiva, e felici per questo anticipato ritorno a casa degli Azzurri, che segna un altro fallimento del calcio italiano (non solo l’eliminazione dall’Europeo, ma anche la mancata qualificazione alle OIimpiadi di Parigi del prossimo anno) dopo due Mondiali guardati in tivù.

Il “biscotto” è un’espressione curiosa, tutta italica (e siccome noi dobbiamo importare anche il peggio della cultura italiana siamo riusciti a far nostro pure questo termine), per dire che in campo sportivo un risultato è truccato. Insomma, due avversari si mettono d’accordo per danneggiarne un terzo e trarre vantaggio reciproco.

Capito? Di questo si preoccupavano gli azzurri alla vigilia del confronto con la Norvegia, ossia che Svizzera e Francia in qualche modo si mettessero d’accordo sul risultato, per passare il turno a scapito dell’Italia.
Che il calcio non sia un mondo popolato da santi e verginelle è pur vero (e qualche mela marcia l’abbiamo avuta anche noi), tuttavia è triste dover constatare che certa stampa e certi dirigenti italiani, evidentemente abituati a questo genere di intrallazzi (sbaglio se affermo che gli scandali calcistici nel campionato italiano sono all’ordine del giorno?), riescano a far galoppare la loro fantasia, fino a pensare che tutto il mondo è paese e quel che succede in Italia venga replicato in ogni parte del globo. La cultura del sospetto è un tarlo che purtroppo divora lo sport italiano, anche se va riconosciuto che, in patria, visto l’alto numero di coloro che se ne fregano delle regole ed eleggono la furbizia a virtù, ha qualche ragione d’essere.

Così, purtroppo, i consigli che sulle stesse pagine di quell’edizione della Gazzetta Arrigo Sacchi si prodigava di dare alla classe dirigente del calcio italiano, sembrano parole inutili, destinate a cadere nel vuoto più profondo. Chiedeva umiltà, Sacchi, consigliava di imboccare la strada del realismo, di puntare sui giovani, sulle idee, di fra crescere gli allenatori, di rinunciare ai calciatori a parametro zero «che magari sono calciatori ormai a fine corsa, che vengono da noi soltanto per strappare l’ultimo contratto».
La storia dice che i valori tecnici del calcio italiano sono indiscutibili, mentre ora l’evoluzione del mondo del pallone verso il business ha messo in dubbio il modello di sviluppo del calcio azzurro, uscito immalinconito da un 2023 che oltre all’eliminazione dall’Europeo U21 lo ha visto perdere una finale del Mondiale U20 e ben tre a livello delle coppe europee destinate ai club (senza contare il magro bilancio della Nazionale maggiore di Mancini che voleva arrivare in finale della Nations League e ha dovuto accontentarsi del terzo posto).

Sono comunque risultati importanti, che certo necessitano di conferme, ma testimoniano una sorta di ripartenza, avvenuta senza le farneticazioni riconducibili alle teorie dei complotti e dei sospetti, che non giovano proprio a nessuno. È sul piano tecnico, guardando in casa propria, che occorre ritrovare il filo del discorso.