Oscar Farinetti, papà di Eataly: “Se avete una storia, raccontatela!”

Oscar Farinetti nasce ad Alba il 24 settembre 1954. Creatore di Eataly, primo supermercato dedicato all’alta qualità italiana, in dieci anni ha aperto 40 punti vendita in Italia e nel mondo. Il suo ultimo progetto, inaugurato nel 2018 a Bologna, si chiama «Fico Eataly World»: 10 ettari dove trovano posto campi, stalle, 40 fabbriche, altrettanti punti di ristoro, botteghe e mercati per rappresentare la Fabbrica Italiana Contadina. L’ingresso a «Fico» è gratuito. Farinetti ha collaborato con l’Università degli Studi di Parma e la Bocconi di Milano per varie ricerche di mercato e ha pubblicato diversi libri sul tema dell’agroalimentare, ottenendo numerosi riconoscimenti. È un uomo d’azione, con ancora tanti progetti e tante idee da realizzare. Ho potuto incontrarlo e fargli raccontare un po’ di cose, per un articolo finito in un supplemento del Corriere del Ticino (“Il viso del vino”) nel settembre del 2019.

Ecco un estratto di quell’intervista.

Signor Farinetti, tanto per cominciare ci spiega cos’è Eataly e cos’ha di rivoluzionario?
«La cosa più rivoluzionaria è che Eataly è un messaggio semplice, addirittura banale, rivolto all’enogastronomia oggi più riconosciuta e importante al mondo, cioè quella italiana. Vogliamo rappresentare l’Italia per la sua enorme biodiversità agroalimentare che si è trasformata in biodiversità enogastronomica. L’idea è stata di creare luoghi molto grandi dove sia possibile comprare ciò che si può mangiare, mangiare ciò che si può comprare e studiare, imparare, in modo da tornare a casa e replicare ciò che si è assaggiato. Siamo stati i primi al mondo a integrare questi tre momenti: il mercato, la ristorazione e la didattica».

Perché la cucina italiana è la migliore al mondo?
«Intanto perché si basa su prodotti di alta qualità, ma più in generale perché è replicabile. La cucina francese è arrivata 150 anni prima della nostra, ma è stata inventata nei ristoranti, dagli chef, dunque è molto tecnica. La cucina italiana è nata dopo e a inventarla sono state le nostre bis bis bis nonne. È una cucina domestica, che si basa sul manuale di quel genio dell’Artusi, e regionale, che si affida ad una materia prima di qualità. Piatti molto semplici, dunque replicabili ed esportabili in tutto il mondo».

Già: una buona pasta, del pomodoro, dell’olio, un po’ di parmigiano e il piatto è fatto.
«Esatto, ma è importante che la gente faccia attenzione al prodotto che mette nel piatto. Oggi per esempio, in tempi di caporalato, guai a comprare pelati da quattro soldi: bisogna andare su un San Marzano DOP, o per restare in Ticino, su un pomodoro di qualità prodotto in zona».

Tutto bene, ma se non conosciamo direttamente il produttore come possiamo fidarci del prodotto venduto?
«Qui lei tocca uno dei temi fondamentali di questo momento storico: quello della fiducia. La fiducia è un sentimento umano primordiale, che distingue l’essere umano dalle bestie. Come si fa? Occorre farsi conquistare attraverso la verità. Noi per esempio cerchiamo di partire dalla terra, perché parlare di cucina significa narrare l’agricoltura, spiegare come il prodotto viene coltivato, poi raccontare la trasformazione, infine narrare la maniera di cucinarlo. Facendo questo, credo che noi, posso dirlo immodestamente, ci siamo dimostrati credibili e abbiamo conquistato la fiducia di milioni e milioni di clienti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone».

Per essere credibili bisogna anche avere una buona competenza…
«Dice bene. Prima bisogna essere seri, poi bisogna studiare e io e i miei collaboratori in questi primi quindici anni di Eataly abbiamo studiato come dei pazzi. La maggior parte dei nostri collaboratori, quelli che scelgono i prodotti e preparano i menù, sono tutti laureati all’università di scienze gastronomiche di Pollenzo».

Lei parlava di narrazione in merito alla cucina e i prodotti del territorio. È un altro aspetto importante o sbaglio?
«Un fatto non raccontato non esiste e dunque noi abbiamo anche cercato di raccontare il cibo. Lo «storytelling» è diventato fondamentale per farsi conoscere».

Come si concilia il desiderio di prodotti a km zero da parte di una larga fetta di pubblico con la qualità dei prodotti offerti da quella che comunque è grande distribuzione e, visti i numeri, deve per forza affidarsi alla grande industria alimentare?
«Il chilometro zero è una buona idea se viene però interpretata. Utilizza i prodotti base della tua terra se sono buoni, perché sarebbe stupido andare a prenderli da un’altra parte. Poi utilizza prodotti di stagione: non si mangiano le arance in estate e le fragole d’inverno perché arrivano dall’altra parte del mondo. Questo però non significa che non bisogna mangiare le grandi specialità che arrivano da tutto il mondo. Se voglio mangiare una grande arancia, dev’essere siciliana e per arrivare dove stiamo noi ci sono mille chilometri da percorrere. Sarebbe invece stupido se comprassi una carota siciliana, perché ce ne sono di ottime anche qui. Il km zero interpretato come autarchia totale, ossia mangia solo le cose prodotte nel tuo territorio, è una stupidaggine. Quindi dobbiamo spostare le eccellenze del mondo, perché se fermiamo la libera circolazione delle cose buone fermiamo anche la circolazione delle buone idee».

Tutto bene, ma se non conosciamo direttamente il produttore come possiamo fidarci del prodotto venduto?
«Qui lei tocca uno dei temi fondamentali di questo momento storico: quello della fiducia. La fiducia è un sentimento umano primordiale, che distingue l’essere umano dalle bestie. Come si fa? Occorre farsi conquistare attraverso la verità. Noi per esempio cerchiamo di partire dalla terra, perché parlare di cucina significa narrare l’agricoltura, spiegare come il prodotto viene coltivato, poi raccontare la trasformazione, infine narrare la maniera di cucinarlo. Facendo questo, credo che noi, posso dirlo immodestamente, ci siamo dimostrati credibili e abbiamo conquistato la fiducia di milioni e milioni di clienti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone».

Eataly esporta il made in Italy ed è presente in tutto il mondo, ma come vi regolate con i prodotti locali nelle vostre sedi all’estero?
«Quando apriamo una sede di Eataly a New York o Istanbul o San Paolo del Brasile, mesi e mesi prima cominciamo a setacciare il territorio alla ricerca di prodotti locali di qualità. Se su quel territorio trovo una grande farina o un grande latte, è stupido che io vi rinunci per far arrivare il prodotto dall’Italia. Sono stato criticato, ma ho detto e sono convinto che nel mondo si producano grani duri di altissima qualità e in certi casi anche più buoni di quelli italiani».

La grande distribuzione esercita costantemente una pressione al ribasso sui prezzi dei prodotti agricoli. Non finirà per doverne un giorno pagare le conseguenze?
«Temo di sì e in ogni caso di questa tendenza penso tutto il male possibile, perché la grande distribuzione non riesce purtroppo ad esprimere altra fantasia che il prezzo del prodotto. Il consumatore abbocca alle promozioni e ai “tre per due”, una vera stupidaggine perché non tiene conto che il cibo è l’unico prodotto che mettiamo nel nostro corpo e dunque deve essere di alta qualità. Se dobbiamo risparmiare, lo possiamo fare su altre cose. Compriamo allora prodotti di alta qualità che costano il doppio rispetto agli altri e magari ne consumiamo la metà, tanto pare che il 40% del cibo che compriamo lo buttiamo via». Siamo strani, noi esseri umani. Ci innamoriamo dei programmi di cucina in televisione, ma abbiamo ancora capito poco di come si deve mangiare. È d’accordo? «Però è sicuro che rispetto a quindici o vent’anni fa siamo migliorati. Il problema è che gli chef in tivù non parlano mai dei prodotti, ma della tecnica. Se usano un pezzo di carne non dicono da che tipo di allevamento deve arrivare, se aggiungono dell’olio al piatto non spiegano qual è il migliore. Spero che arriverà il giorno in cui si farà. Un prodotto sano fa meglio a noi perché è buono e se è buono sarà fatto senza utilizzare la chimica e dunque farà star meglio anche il mondo».

Ci parli del suo rapporto con Slowfood. Com’è nato? Come si concretizza?
«Io ho sempre fatto parte del movimento e ho sempre ammirato Carlin Petrini, il fondatore. Quando ho deciso di fondare Eataly, è stato il primo che ho chiamato per chiedergli un parere, dopo di che abbiamo stabilito un rapporto di consulenza. Ci sono persone di Slowfood che collaborano con Eataly per tutta una serie di valori che vanno dalla ricerca dei fornitori allo studio e all’analisi dei prodotti, fino alla narrazione e a operazioni promozionali che non sono fatte sui prezzi, come quella che abbiamo fatto in favore delle api».

Sarebbe?
«Che c’è un grosso problema nel mondo, la moria di api. E senza api non ci sarà più la frutta né buona parte delle verdure. Il progetto si chiama «Bee the Future»: si tratta di un impegno di tre anni nella riforestazione di 100 ettari in Italia con i fiori amati dalle api: l’obiettivo è riportare la biodiversità delle piante infestanti in quelle zone dove, a causa di metodi agricoli basati sull’alto rendimento dei terreni, sta scomparendo » Lei verrà in Ticino nei prossimi giorni, ma è di Alba, a due passi da noi e sicuramente conoscerà un po’ il nostro territorio. Che mi dice? «Che vivete in uno dei posti più belli del mondo e conosco anche il vostro fantastico Merlot, il quale ha conosciuto un successo straordinario e con gli anni è diventato sempre più buono. Ma so che producete anche dei formaggi eccellenti, cosa che del resto è normale, visto che siete una regione di montagna e il formaggio migliore è quello prodotto in montagna».

E che consiglio ci darebbe per cercare di propagandare questi prodotti?
«Quando si hanno cose straordinarie non bisogna tenerle nascoste, ma farle conoscere. E per farle conoscere bisogna raccontarle. Torniamo al discorso di prima, allo «storytelling». Io non so quanta gente del Nord Italia è a conoscenza del fatto che in Ticino si produce uno dei migliori Merlot al mondo. Raccontatelo! Avete la bellezza del paesaggio, un ottimo vino, ottimi formaggi, ci sono gli ingredienti anche per generare turismo, per fare arrivare da voi gente da ogni parte del mondo».