Artista, uomo profondamente legato al territorio in cui ha scelto di vivere (la Toscana), grande produttore di vini e abilissimo comunicatore, Bibi Graetz quando si parla di vino è capace di trasformare qualsiasi momento in un grande evento.

Succede anche per il battesimo della nuova annata di Testamatta e Colore, le due etichette di alto livello della cantina di Fiesole. Sboccia l’edizione 2020, che si annuncia come una grande annata. Grande? Ma no, non basta. La più grande di sempre afferma Bibi Graetz con un largo sorriso, la carica emotiva contagiosa, l’entusiasmo straripante di chi sa di avere tra le mani un tesoro.

Il produttore, Bibi Graetz

“Il 2020 è l’anno del destino. È un po’ come quando tutte le stelle e i pianeti sono allineati. Grazie a tre fattori, un’annata potente, la freschezza regalata dalla nuova vigna di Olmo che si situa a 420 metri di altezza sul livello del mare, e la nuova cantina di Fiesole, credo che in questa annata abbiamo realizzato il miglior Colore e il miglior Testamatta di sempre. Il 2020 è stato un anno caratterizzato da un ottimo clima, che ha regalato grappoli perfettamente maturi, potenti e armoniosi. L’apporto del nuovo vigneto è stato importante: si avverte la freschezza, data un’ottima esposizione e da una buonissima ventilazione. Da ultimo, la nuova cantina, ampia, comoda, tecnologicamente all’avanguardia, che ci ha facilitato il lavoro. Persino la pandemia ha giocato un ruolo, regalandoci la quiete, che è un elemento importante per la lavorazione della vigna e del vino. Credo che abbiamo realizzato dei vini con una tensione perfetta e vivace che si combinano armonicamente con la potenza dell’annata” racconta il produttore che con le sue etichette ha conquistato in pochi anni il mondo degli esperti del vino.

Colore esprime il massimo del potenziale della produzione di Graetz: 100% Sangiovese, nasce da ceppi vecchi di oltre settant’anni, è figlio di quattro vigneti posti in altrettante località della Toscana, la vendemmia avviene addirittura sfruttando otto passaggi per poter raggiungere la massima qualità, l’invecchiamento avviene in barriques in parte nuove ma in maggioranza già utilizzate in precedenza, il mosto viene assemblato dopo aver trascorso almeno 20 mesi in botti separate.

L’annata 2020 promette meraviglie, ma naturalmente non è da bere adesso. Bisognerà attendere con pazienza che la grande concentrazione di aromi maturi per esprimere tutto il suo enorme potenziale, ma stiamo parlando di un vino fine ed elegante, capace di sorprenderci con la sua evoluzione.

Anche il Testamatta è un Sangiovese in purezza. Le vigne da cui proviene sono più giovani e crescono su un suolo caratterizzato dalla presenza di pietra, ciò che regala un vino capace di esprimere una buona mineralità. L’annata 2020, che rilascia sentori di fragola e vaniglia, secondo noi è ancora un po’ imbavagliata e chiusa. Aromi asprigni per intanto prevalgono un po’ sull’armonia e sull’equilibrio di un vino che si annuncia fresco ed “leggero”.

Porsche e il Merlot del Ticino: un abbinamento tra l’eccellenza della meccanica e quella dell’enologia, soprattutto se ad andare a braccetto sono il modello d’entrata di casa Porsche, la Macan, e la Tenuta Castello di Morcote, che quasi sembra sospesa tra il lago e il cielo e regala scorci di panorama che lasciano a bocca aperta.

La meraviglia è di casa anche presso le concessionarie del produttore di auto tedesco, quando il cliente si avvicina al modello Macan: quasi sempre si tratta del primo contatto con Porsche, perché l’80% delle persone che comprano una Macan sono anche nuovi clienti del marchio, i quali in seguito passano spesso a modelli di categoria superiore e non lasciano più la casa di Zuffenhausen.
Prodotto a partire dal 2014, il modello Macan è stato consegnato finora a 700 mila clienti nel mondo, mentre in Svizzera – i dati sono conteggiati al 31 dicembre del 2021 – sono stati venduti 10.536 veicoli, col modello GTS – il più performante – a guidare la classifica.

Il successo della Macan è presto spiegato: oltre ad avere un costo d’entrata tutto sommato accessibile per la parte più benestante della classe media (il prezzo del modello base Macan è di 79.600 franchi), si tratta di un’auto sportiva prodotta da un marchio premium, versatile, compatta e adatta a tutta la famiglia.
La gamma dei modelli Macan comprende quattro declinazioni della vettura, mossa da due motori distinti, un quattro e un sei cilindri. Il quattro cilindri monoturbo da due litri che sprigiona 265 cavalli e 400 Nm di coppia muove la Macan e la Macan T, mentre il sei cilindri bi-turbo da 3 litri viene montato sulla Macan S e sulla GTS, dove raggiunge la sua massima potenza (440 CV contro i 380 del propulsore adottato dalla Macan S).

Forzando un paragone coi vini prodotti dalla Tenuta Castello di Morcote, dove i vigneti si coltivano seguendo le disposizioni della biodinamica e del protocollo per la certificazione bio, potremmo azzardare che il modello base della Macan fa il paio con il “Rubino DOC”, un assemblaggio di Merlot (70%) e di Cabernet Sauvignon (30%) provenienti dal terroir del Mendrisiotto, una tipologia bordolese dunque, che esprime potenza contenuta ed eleganza, il frutto del Merlot e l’aroma speziato del Cabernet.

Salendo di un gradino, la Macan T possiamo paragonarla al “Castello di Morcote DOC”, un vino che nasce sul promontorio dell’Arbostora, affinato per 12 mesi in barrique, 90% di Merlot e 10% di Cabernet Franc: si compie un passo avanti a livello di potenza ed eleganza, un vino che esprime grande carattere, un po’ come l’automobile alla quale l’accostiamo.

Col “Castello di Morcote Riserva” il salto avanti si fa più deciso, un po’ come passare dalla Macan col motore a quattro cilindri al primo modello col propulsore bi-turbo a sei cilindri.

Parliamo in questo caso della Macan S, accostandola ad un vino che effettua una lunga macerazione (25 giorni anziché 20 come il Castello di Morcote DOC) e un lungo affinamento in barrique (18 mesi contro i 12 del… fratello). Siamo di fronte ad un vino speziato e fruttato, che esprime la tipicità del Merlot e del Cabernet (l’assemblaggio è sempre 90-10), una grande eleganza, un’esplosione di tannini morbidi che gli conferiranno lunga vita, esattamente come il suo gusto persistente, che in bocca sembra non spegnersi mai.

L’ultimo scalino è rappresentato dal “Fuoco”, anche in questo caso un assemblaggio di Merlot e Cabernet Franc in proporzioni 90-10%. Il fuoco è quello che sembra sprigionarsi dal motore della Macan GTS, quando schiacci a fondo l’acceleratore e il propulsore ringhia come una bestia selvatica che in pochi secondi può rabbonirsi e diventare docile come un gattino da salotto. Perché questo è il bello della Macan GTS: un’esplosione di potenza se richiesta, con la capacità di adattarsi alle condizioni stradali là dove è necessario tenere al guinzaglio un atteggiamento dirompente.

Il “Fuoco” della Tenuta Castello di Morcote è l’ammiraglia della casa: un vino che viene prodotto in quantità limitata, anche a dipendenza delle annate, un nettare prezioso che si caratterizza per la presenza di una struttura importante e di tannini morbidi e vellutati, pronti ad esplodere in bocca, regalando note di lampone e frutti rossi, con sentori di spezie.

Maurizio Merlo con la moglie Gaby Gianini dirige la Tenuta del castello di Morcote.

Se dietro al successo di Porsche Macan ci sono ingegneri di grande talento, dietro al successo della Tenuta Castello di Morcote c’è il lavoro e la perseveranza di Gaby Gianini e di suo marito Maurizio Merlo, sovrani di questo splendido promontorio sul quale prospera un’azienda agricola e vitivinicola di 150 ettari e dove fa bella mostra di sé, in posizione dominante, il Castello di Morcote. Qui non si producono solo vini rossi, ma anche ottimi bianchi, ottenuti con uve Merlot, Chardonnay, ma anche piccole quantità di Sauvignon, Doral e altri ancora. Per non parlare di un rosé di Merlot (13 Rosé) davvero esemplare, dal colore rosa tenue, in stile provenzale, e dal gusto semplicemente indimenticabile, recentemente premiato al GP du Vin Suisse. Dietro a questi vini, la sapienza dell’enologa Benedetta Molteni, che merita più di un lungo applauso.

Benedetta Molteni, enologa della Tenuta Castello di Morcote

Il conte Lorenzo Borletti è rientrato appositamente dal suo domicilio in Brasile per partecipare all’ultima vendemmia italiana: è quella tardiva dell’uva friularo, che può avvenire soltanto dopo l’11 novembre, giorno dedicato a san Martino, quando le prime brine si sono posate sulle foglie della vite. C’è aria di festa presso la storica tenuta del Dominio di Bagnoli, gran partecipazione di autorità e invitati di lusso. Siamo nella Bassa Padovana, nella sede del Consorzio Vin Friularo DOCG, una storica proprietà, oggi della famiglia Borletti, che un tempo apparteneva ai monaci benedettini. La tenuta è immensa (600 ettari, si producono vino, riso, grano, granoturco, soia, bietole e si allevano più di 1.500 bovini da ingrasso di razza pregiata), la vista si perde inseguendo scorci di paesaggio magnifici, già a partire dal giardino della villa che ha ospitato a metà del Settecento anche Carlo Goldoni, per il quale è stata addirittura costruita una sala adibita a teatro, e che qui scrisse “La bottega del caffè”. Il giardino è impreziosito dalla presenza di importanti sculture firmate da Antonio Bonazza, con statue raffiguranti i personaggi della “Commedia dell’Arte”. Il Conte vuole divertire i suoi ospiti: dentro il giardino, i personaggi raffigurati dalle sculture danno vita ad una rappresentazione teatrale che svela i retroscena della vita che si svolgeva nelle corti veneziane…

Siamo agli inizi di novembre, il conte Borletti è intento a vendemmiare l’uva friularo.

Il Dominio di Bagnoli è l’ultima tappa di un giro per la Bassa Padovana organizzato da GAL Patavino con il progetto “Dai Colli all’Adige, un territorio tutto da vivere”, sostenuto dalla Camera di Commercio di Padova. L’iniziativa abbraccia l’area della Bassa Padovana e dei Colli Euganei e coinvolge numerose aziende in prima linea nel proporre prodotti di alta qualità nel rispetto dell’ambiente e della tradizione. Qui si si sposano promozione e valorizzazione delle imprese legate al settore turistico e dell’accoglienza, patrimonio culturale materiale (borghi, castelli, chiese, abbazie…) e immateriale (tradizioni, saper fare, artigianalità).

L’immensa e splendida tenuta di Bagnoli

Il vino Friularo
Il vitigno omonimo che dà origine a questo vino era coltivato nella zona di Bagnoli già nel Medioevo dai monaci benedettini, che qui hanno bonificato ettari di terreno paludoso ed eretto un monastero dotato di grandi cantine. La proprietà fu acquistata da una nobile famiglia veneziana (i Widmann, di antiche origini austriache) nel 1656 e i nuovi proprietari costruirono sulle fondamenta dell’antica abbazia uno dei più grandi complessi monumentali del Veneto, adibendolo ad azienda agricola, ma anche a luogo ameno in cui, data la vicinanza con Venezia, trascorrevano le loro giornate artisti di vario genere e uomini d’affari, incantati dal vino Friularo, che nasce da uve vendemmiate tardivamente e fatte appassire prima di essere trasformate in un mosto di grande carattere e dal profumo intenso, che matura lentamente e richiama sentori di frutta rossa e di spezie.

I monaci hanno anche inventato una tecnica di coltivazione particolare: per allontanare i grappoli dal terreno molto umido, e dunque portatore di malattie, piantavano le viti ai piedi di alberi robusti, sui cui rami facevano arrampicare i tralci. Questa tecnica, oggi ancora in uso, viene definita “vigna maritata” perché prevede un legame indissolubile tra l’albero, che funge da tutore, e le viti.

Come accade a molti vitigni autoctoni, nei primi del Novecento anche il Friularo viene progressivamente sostituito da vitigni internazionali, ma a Bagnoli sorprendentemente questo non accade e negli anni ’90 grazie al lavoro dei conti Borletti viene fondato il Consorzio per la tutela dei vini DOC di Bagnoli, a cui fa seguito nel 2011 il riconoscimento della DOCG Friularo, che prevede non solo la raccolta tardiva dell’uva e l’appassimento, ma anche una lenta maturazione in botti di legno e barriques, che rende un po’ simile questo vino al più noto Amarone.

Tra le realtà che hanno contribuito a rendere noto il Friularo, anche la cantina sociale di Conselve (Conselve Vigneti e Cantine), a due passi da Bagnoli, un’immensa realtà produttrice di varie tipologie di vino, che deve all’intuizione di uno svizzero il successo nella commercializzazione del vino tipico della zona. Fu infatti un enologo della Coop, una trentina di anni fa, a individuare le potenzialità del Friularo durante una visita in loco e a consegnare alla cantina di Conselve – come ci conferma l’attuale presidente Roberto Lorin – alcune linee direttive per rendere il vino qualitativamente ineccepibile. Quella di Conselve è una realtà inimmaginabile ai nostri occhi, talmente è grande: lavora le uve di 1200 ettari di vigna (poco più di tutta la superficie vitata del Ticino) e ha un fatturato annuo di 30 milioni di euro. La cantina è in fase di rinnovamento: botti di acciaio altissime e capienti sono le torri di guardia dell’azienda, davvero enorme.

Il presidente della cantina di Conselve, Roberto Lorin

 

Un trionfo di oca e animali di bassa corte
A due passi dalla cantina di Conselve, che saprà stupirvi per la varietà della sua produzione, c’è un rifugio per buongustai che non bisogna lasciarsi sfuggire. Il pranzo o la cena alla “Trattoria in corte dal Capo” di Marina Ostellari è d’obbligo per assaggiare le prelibatezze cucinate da questa cuoca-proprietaria che porta in tavola i prodotti del territorio, cibo schietto, senza sofisticazioni, il trionfo dell’anima vera dell’osteria, anche se gli arredi sono curati e il servizio impeccabile.

L’elegante sala della “Trattoria in corte del capo”

Qui sono l’oca e gli animali di bassa corte in genere a deliziare il palato (la produzione di Michele Littamé è strepitosa e meritevole di un riconoscimento Sloow Food; nell’ultimo mese di vita delle oche, la sua azienda le alleva a latte, miele e farine di propria produzione!), ma anche la patata dolce (prodotta in grandi quantità in zona). L’oca è un prodotto tipico della cucina padovana: viene servita in mille modi, può essere un paté oppure un salame; cotta al forno è deliziosa, accompagnata da castagne, prugne e mele; l’”Oca in onto” fa parte della tradizione padovana e si conserva a lungo: un tempo non c’era il frigorifero e lo strutto, o il grasso dell’oca, era un ottimo conservante. Del resto, anche in Ticino la tradizione prevedeva la conservazione della carne del maiale non destinata agli insaccati nello strutto.

Dentro le mura, il prosciutto
Visitare la Bassa Padovana significa affrontare un’esperienza ricca di emozioni che si stagliano nette alla vista delle bellezze paesaggistiche di borghi e città murate come Este o Montagnana, oppure di fronte a piatti tipici che sanno parlare. Come quelli dell’Hostaria San Benedetto che si trova dentro le mura di Montagnana, considerato uno dei borghi più belli d’Italia. Montagnana è celebre per il suo prosciutto DOP e la presenza di un’eccellenza come il Prosciuttificio Attilio Fontana (ne parleremo prossimamente), ma all’Hostaria da Laura, Gianni (lo chef) e Federico mangiamo altro: stupendi gli gnocchi dolci con uvetta, cannella, grana padano e burro; delizioso il paté di fegatini di gallina padovana serviti con la zucca e gel di Merlot; cotto alla perfezione e gustosissimo lo stracotto d’asino al Cabernet dei Colli Euganei.

Nella splendida Montagnana, ospiti di Laura e Gianni

Tornando al prosciutto: a farne un’eccellenza, racconta Fontana, non solo la qualità delle cosce rigorosamente controllate a livello di produzione, ma soprattutto il clima e la temperatura di un territorio esposto ai venti che s’incrociano arrivando sia dal mare, sia dall’entroterra, e permettono di esaltare il sapore delicato e avvolgente di un prosciutto portato a maturazione essendo stato sottoposto unicamente a un’attenta salatura.

Attilio Fontana, titolare dell’omonimo prosciuttificio: dà vita ad un salume dolce, avvolgente, che matura unicamente grazie ai venti di Montagnana e con la sola aggiunta di sale

Dopo una visita al Consorzio Vini Merlara Doc e un assaggio di formaggi a km zero presso la Fattoria Crivellaro di Borgo Veneto, superiamo nuovamente delle vecchie mura, questa volta quelle della bella città di Este, per immergerci in una realtà enogastronomica particolare, voluta dall’esuberante ostessa Silvia Tolin, che ama i vini naturali e nel suo locale, “Ostaria Nova” propone piatti legati alla tradizione contadina reinventati da lei. L’osteria è piccola e semplice, vi si trovano materie prime di stagione fornite da produttori e agricoltori locali.
Silvia racconta le sue proposte con un linguaggio colorito, rappresenta lei stessa motivo di una visita al suo locale, che anche in fatto di vini si aggrappa alla produzione del territorio, con una predilezione per i piccoli vignaioli. Qui incontriamo il “Tagliere dai Colli all’Adige”, un bell’escamotage capace di mettere in relazione la filiera della produzione con quella della ristorazione. Ogni locale può avanzare una sua proposta: il denominatore comune della stessa devono essere le radici che l’offerta gastronomica affonda nel territorio, rispettando le origini e la stagionalità del prodotto.

Esuberante, innovativa, eppure sempre attenta a rispettare la tradizione: Silvia Tolin a Este è in grado di stupirvi con effetti speciali…

Il santo precetto degli appassionati di ostriche è che il mollusco vada mangiato unicamente nei mesi con la erre. Dunque da settembre ad aprile, compreso gennaio, perché quando si parla di ostriche il pensiero corre alla Francia, Paese che vanta una lunga tradizione nell’ostricoltura. E lì gennaio fa janvier…

Se c’è un periodo nel quale procurarsi delle ostriche anche al supermercato è facilissimo, questo è quello delle festività di fine anno, durante il quale anche i diffidenti si lasciano tentare, complice il concetto che lega il consumo di questo cibo all’immaginario erotico e alla tradizione gastronomica.

In verità, non è vero che nel corso dei mesi estivi non si possano consumare le ostriche, ma bisogna sapere che in quel periodo il mollusco si riproduce, approfittando di un mare più caldo, e diventa un po’ lattiginoso, il che a qualcuno a livello gustativo può procurare un po’ di fastidio. Nessun pericolo però per la salute, come per anni qualcuno ha cercato di far credere.

Questa storiella delle ostriche da consumarsi solo nei mesi con la erre nasce essenzialmente per due motivi: il primo legato alle condizioni igieniche e di trasporto del mollusco nel corso dell’Ottocento, che in estate non erano certo paragonabili a quelle che abbiamo oggi grazie alla possibilità di controllare la temperatura; il secondo che si rifà invece alla proibizione di raccogliere le ostriche durante il periodo della riproduzione, decisa da Re Luigi XIII nel XVII secolo, per proteggere le coltivazioni dall’impoverimento dei banchi a cui erano sottoposte a causa del largo consumo.

La Route de l’huître, intinerari per golosi e buongustai sulle coste della Bretagna.

Un po’ di storia

L’ostrica è comparsa milioni di anni fa e i primi ad allevarla furono i cinesi. Anche gli antichi greci sembra che ne fossero ghiotti, per non parlare dei romani. Verso la fine del ‘600 sono segnalate piccole coltivazioni nei pressi de La Rochelle in Francia, dove si allevava soltanto una specie, l’ostrica piatta (Ostrea edulis), ma eravamo assai lontani da un’idea di ostricoltura dai grandi numeri, che comincia solo dopo la metà dell’Ottocento, quando la riproduzione naturale delle ostriche era messa a repentaglio dal vasto consumo e sul bacino di Arcachon per le coltivazioni si cominciò ad importare ostriche dal Portogallo (Crassostrea angulata) dette ostriche concave (o huitres creuses).

L’ostrica portoghese era scarsamente considerata dai francesi e si diffuse alla grande per due motivi: dapprima perché un carico che stava andando a male venne scaricato in mare dal comandante di una nave che non riusciva ad attraccare per le cattive condizioni meteo. Le ostriche che sopravvissero trovarono buone condizioni sulle coste francese e proliferarono. Fu una fortuna per i coltivatori di Francia che amavano soprattutto l’ostrica piatta (detta anche Belon), la quale venne decimata da una malattia nel 1920/21. La portoghese prese allora il sopravvento, ma fu a sua volta vittima di un’epidemia negli anni ’70 del secolo scorso e la sua presenza venne integrata con quella di un’ulteriore varietà importata dal Giappone.

Per farla breve, oggi in Europa abbiamo a che fare con due tipi di ostriche, la piatta e la concava, e la Francia è il Paese maggiormente implicato nella loro produzione e commercializzazione, grazie a bacini di allevamento che si situano in sette zone: la Normandia, la Bretagna del Sud e quella del Nord, la Loira, le Marennes-Oleron, il bacino di Arcachon (nei pressi di Bordeaux) e quello del Mediterraneo situato nell’Etang de Thau poco lontano da Montpellier. I dati europei dicono che la produzione è al 70% francese, il 20% irlandese e il 10% italiana, proveniente grosso modo da due zone, quella sarda di San Teodoro e quella veneta situata sul Delta del Po, che produce una qualità eccellente denominata ostrica rosa per le particolari striature della conchiglia.

Ostriche appena raccolte e portate nei bacini di affinamento.

Per farle crescere ci vogliono anni

Premesso che parlare di ostriche è un po’ come parlare di vini, con denominazioni di origine, “cru” particolari, label assegnati dalle differenti zone di produzione, insomma, roba da intenditori, è importante sapere che prima di arrivare in tavola uno di questi molluschi deve crescere nell’acqua per anni. Tra i mesi di giugno e agosto le ostriche madri lasciano le piccole larve in balia della corrente e queste nel giro di due settimane si fissano su corpi duri presenti nel mare. Gli ostricoltori le catturano con degli speciali collettori (tegole, tubi di cemento, ardesie, conchiglie infilate su delle corde), sui quali una volta appiccicata la larva sviluppa la conchiglia. All’incirca dopo 8 mesi le piccole ostriche hanno raggiunto la dimensione di 4 cm e hanno bisogno di più spazio per svilupparsi. Dopo essere state separate una per una, perché altrimenti non potrebbero svilupparsi, le baby-ostriche vengono portate nei parchi marini, dove ingrassano e in tre o quattro anni, sempre dopo diradamento, sono pronte per essere commercializzate e consumate. Alcune però vengono ulteriormente affinate in bacini ricchi di plancton e in acque meno salate: sono definite “claire” o “fines de claire” e crescono meglio quando sfruttano le acque dolci di qualche estuario, come avviene nel distretto francese di Marennes-Oléron dove passa il fiume Seudre. Da qui arrivano quelle che gli intenditori definiscono le migliori ostriche al mondo.
La misura dell’ostrica, che concorre a determinare il suo prezzo, si fissa in calibri. Per le ostriche concave si va da 5 a 0, dove il cinque sta per un’ostrica che pesa tra 30 e 45 grammi (la meno pregiata) e lo zero indica invece una misura di oltre 150 grammi. Analogo discorso per l’ostrica piatta, dove il calibro 0 indica però un peso tra 80 e 90 grammi e dunque si va oltre, fino al triplo zero, che significa un peso tra 100 e 140 grammi.

Freschezza assoluta

È il presupposto necessario per poter mangiare le ostriche. E la freschezza assoluta si trova ad una sola condizione, ossia che l’ostrica sia viva al momento dell’apertura. Il consiglio è di comprare la confezione intera, che permette di verificare la data del confezionamento, invece delle ostriche singole che potrebbero essere state dimenticate dal pescivendolo.
Di regola, se le valve sono già aperte prima del consumo e nella conchiglia non c’è acqua è meglio buttarle per non incorrere in gravi problemi intestinali. Si capisce, dunque, che per vivere le ostriche necessitano assolutamente della presenza di un po’ d’acqua nella conchiglia e l’ostricoltore le allena a questo scopo, vuotando e riempiendo i bacini in concomitanza con le maree due volte al giorno. Quando non sono sott’acqua, le ostriche trattengono il liquido serrando le valve e in questo modo si preparano ad affrontare il viaggio che le porterà sulla tavola del consumatore. Quanto riescono a sopravvivere fuori dall’acqua? Da un minimo di dieci giorni a due settimane.

In questi contenitori lasciati a lungo in balia delle onde l’ostrica cresce fino a raggiungere le dimensioni adatte alla sua commercializzazione.

Mangiamole crude!

E come si mangiano allora questi prelibati molluschi che qualcuno ritiene afrodisiaci? Qui le opinioni divergono. Intanto c’è la categoria dei “crudisti”, quella secondo i quali un’ostrica va sempre e solo mangiata cruda. E se il galateo dice che andrebbero mangiate con una forchetta apposita (c’è quella per le ostriche, piuttosto piatta e con rebbi larghi), la maggior parte degli estimatori considera che la miglior soluzione sia quella di «succhiare» l’ostrica direttamente dal guscio, senza far troppo rumore. Poi ci sono i puristi, che considerano blasfemo qualsiasi condimento: si mangiano al naturale, punto e basta, senza masticarle. La maggior parte di noi però aggiungerà due gocce di limone e una spruzzata di pepe. Personalmente dico no al limone, che ne altera il gusto di mare, e sì al pepe, ma con moderazione. Poi c’è il metodo francese, da non trascurare, dato che in Francia sono veri intenditori: si assaggiano con scalogno marinato in aceto, pepe e in accompagnamento a pane tostato con burro salato. Napoleone le adorava condite con un’emulsione a base di poco olio, sale, pepe, succo di limone e Cognac. Quante? In genere se ne servono sei a testa, ma dipende dalla nostra voglia e dal nostro amore per un mollusco che non solo è simbolo di raffinatezza e ci porta il mare in bocca, ma divide profondamente: o lo si ama alla follia, o lo si detesta.
L’ostrica cotta? Certo, si può e ci sono infinite ricette in proposito. Negli Stati Uniti va di moda cucinarla sulla griglia, ma secondo me è un delitto. Durante le festività natalizie ho voluto riprovare una ricetta con le ostriche gratinate: il risultato è stato eccellente, la pietanza arrivata in tavola mi ha soddisfatto, ma il sapore dell’ostrica? Svanito, evaporato. Allora tanto vale utilizzare dei molluschi di minor pregio: le pur buonissime coquilles st. Jacques o cappesante, addirittura le umili cozze, che gratinate sotto un po’ di pan grattato misto ad aglio, scorza di limone ed un trito di prezzemolo, poi condite con un buon olio d’oliva e sale e pepe, garantiscono una riuscita spettacolare a prezzi da saldi.

Le coquilles saintes-jacques o cappesante (ma anche capesante) sono ottime alternative all’ostrica gratinata e costano meno.

 

Non solo con le bollicine

E il vino? Anche qui pareri divisi. C’è chi dice che le bollicine uccidono i sapori dell’ostrica e sia preferibile un bianco fermo, meglio se Muscadet e meglio ancora se Sèvre et Maine, un bianco della Valle della Loira.
È di questo avviso anche Anna Valli, presidente della sezione Ticino dell’Associazione Svizzera dei Sommelier Professionisti (ASSP). “Il Muscadet Sèvre et Maine è un vino che sta parecchio sui lieviti e ciò gli conferisce un bel corpo e un bel volume. Ha una grande sapidità e un tenore alcolico piuttosto basso. Il tutto si sposa bene con le ostriche, che danno una bella succulenza con una tendenza al dolce e una salinità molto pronunciata. Non solo, ma l’ostrica ha una persistenza olfattiva e dunque necessita di un vino di carattere, molto avvolgente” dice la sommelière. Anna non è donna da classico abbinamento con lo Champagne.
“Secondo me è un abbinamento cliché, che richiama il lusso, l’esclusività, ma occorre saper andare oltre. Lo Champagne, con la sua componente molto acida, confrontato con la salinità dell’ostrica tende a creare una sensazione metallica che a me non piace”.
Personalmente sono un po’ tradizionalista: a me l’abbinamento ostriche-champagne non dispiace, ma ci vogliono degli champagne un po’ rotondi, con tendenza al fruttato, non quelli con un’acidità troppo pronunciata, che darebbero fastidio.Se proprio vogliamo abbinare alle ostriche una bollicina, le alternative peraltro non mancano: un buon Franciacorta nella versione Saten, che è morbido e ha un finale dolce, ma anche un buon Pinot Nero dell’Oltrepo’, e perché no, qualche interessante proposta locale: anche in Ticino sappiamo produrre degli ottimi spumanti.

Anna Valli, presidente dell’Associazione Svizzera dei Sommelier Professionisti, sezione Ticino

“Se vogliamo essere sconvolgenti, proviamo ad abbinare un ottimo Moscato d’Asti con le ostriche” mi dice Anna Valli pensando di scandalizzarmi. Eh no: chi scrive, dopo essere stato ospite dei produttori del Moscato in Piemonte ed aver provato l’abbinamento, è un sostenitore dell’accoppiata Moscato-acciuga, che sembra strana, ma ci azzecca di brutto: chissà, magari il Moscato funziona davvero anche con l’ostrica, ma ammettiamolo, è necessaria una certa dose di coraggio…

Una storia di amicizia, di collaborazione, di audacia e di competenza: è quella della cantina Fawino di Mendrisio e dei suoi protagonisti, Claudio Widmer e Simone Favini, che nel 2012 unirono le forze per dar vita ad una produzione di qualità con una forte impronta territoriale. I loro vigneti si sviluppano sulle pendici del Monte Generoso e del Monte San Giorgio, i loro vini esprimono il carattere del territorio del Mendrisiotto, con una forte mineralità, un giusto equilibrio, una bella freschezza e tanta eleganza. Soprattutto nei rossi d’alta gamma, che invecchiano nelle barriques.

Simone Favini a sinistra e Claudio Widmer, titolari della Fawino sagl

Claudio e Simone hanno voluto festeggiare il decennio di collaborazione con una bella iniziativa: hanno riunito presso la Corte del vino Ticino a Morbio un folto gruppo di amici (molti produttori di vino e dunque “concorrenti”), sommelier ed estimatori del Merlot, per una verticale che ha abbracciato tutto il decennio della loro attività e ha permesso di andare alla scoperta del “Cantastorie”, del “Meride” e del “Musa”, tutti Merlot vinificati in rosso e in purezza, ma con stili differenti e uve provenienti da vigneti diversi.

Non che la Fawino produca solo queste etichette: curiosando tra la produzione dell’azienda, scoprirete che ci sono anche vini bianchi, rosati e persino delle bollicine spumantizzate col metodo classico, il “Saltimbanco” vinificato in rosa (da uve Merlot) e in bianco (da uve Chardonnay). Insomma, in un decennio, si può tranquillamente affermare che Claudio e Simone di strada ne hanno percorsa parecchia, considerando che quando sono partiti, nell’aprile di 10 anni fa, avevano a disposizione un ettaro scarso di vigna, producevano solo vinificando in rosso (tre etichette) e per un totale di 10 mila bottiglie l’anno. Oggi i vigneti coltivati e seguiti personalmente dai due amici si estendono su una superficie di 4 ettari, le etichette della cantina sono 8 e le bottiglie prodotte ogni anno 30 mila.

La verticale che abbracciava un decennio di produzione di Merlot vinificato in rosso ha evidenziato come lo stile della casa, pur evolvendosi, in dieci anni sia rimasto molto coerente e sempre su livelli di eccellenza, come testimoniano i numerosi riconoscimenti ricevuti sia a livello di guide, sia di concorsi (in particolare con le medaglie d’oro e d’argento ricevute a Expovina, al Mondial du Merlot e al GP des Vins Suisses).

La qualità della produzione Fawino si evidenzia già a partire dal “Cantastorie”, che è un Merlot classico, vinificato senza passare nel legno e dunque unicamente in botti di acciaio, un vino base diremmo, senza togliere nulla sul piano qualitativo ad un prodotto che si è rivelato elegante e potente, fresco e fruttato, ma anche meno coerente nel corso delle annate rispetto ai due Merlot di categoria superiore.

La Fawino produce anche due ottimi spumante con il metodo classico, il Saltimbanco vinificato in bianco e in rosato

Le dieci annate di “Meride” ci hanno permesso di scoprire un vino capace di esprimere grande sapidità, note speziate, tannini morbidi, bell’equilibrio e grande armonia all’interno di sapori fruttati a volte capaci di esplodere in bocca. L’annata 2015 in questo senso è risultata esemplare e a noi risulta la porta d’ingresso per le vinificazioni degli anni seguenti, tutte molto coerenti, fino ad un 2020 che si annuncia fantastico, seppur ancora nella sua esuberanza giovanile.

Il “Meride” è ottenuto con uve coltivate quasi a 600 metri di altitudine nel quartiere della città di Mendrisio. Siamo nei pressi del Monte San Giorgio, i vigneti hanno un’ampia esposizione a Sud, la vinificazione prevede un invecchiamento in botti di rovere svizzero da 500 litri, in parte nuove, in parte di secondo o addirittura di terzo passaggio.

Musa, il Merlot ammiraglia della casa

Un gradino più su ecco il “Musa”, davvero un vino nobile, signorile. Qui sono le uve delle viti più vecchie coltivate in un vigneto di Salorino a esprimere eleganza e potenza. Il vino matura per 18 mesi in barriques da 225 litri di legno francese, il 75% nuove, il resto di secondo passaggio. Parliamo di un vino che sa esprimere una complessità di aromi e profumi davvero notevole, in diverse annate si affermano tannini ancora molto tesi, emerge una mineralità elegante e mai invadente. Tra le annate più apprezzate da chi scrive il 2014, con un buon equilibrio tra il fruttato e le note speziate (non per nulla è stato premiato con i tre bicchieri del Gambero Rosso), il 2017, potente ed elegante, e il 2019, un’esplosione di sapori dentro una rotondità eccellente, vellutata, con prevalenza delle note fruttate rispetto a quelle speziate e aromi di mora, bacca rossa, ciliegia ad emergere. Col “Musa” possiamo andare sul sicuro accompagnando carni a lunga cottura, selvaggina, formaggi stagionato. Un grande vino, in grado di abbinarsi ad una cucina d’autore, un’interpretazione della vinificazione del Merlot che chiama l’applauso.

Cantina Fawino: www.fawino.ch

Si dice Treiso e il pensiero corre subito al Barbaresco e alle dolci colline delle Langhe. Oppure a Beppe Fenoglio, che lì ambientò più d’un suo romanzo e in particolare “Una questione privata”. Una delle più antiche cantine di Treiso è l’azienda vinicola Lodali, fondata nel 1939.


A Bellinzona, all’ombra di Castelgrande e appena dietro il palazzo del Governo, in via Orico, una nuova realtà dell’enogastronomia della Capitale, il ristorante MoAn aperto coraggiosamente in piena pandemia (o quasi…) ci ha permesso di incontrare Walter Lodali, titolare dell’azienda fondata da suo nonno Giovanni e dal papà Lorenzo, e di entrare in contatto con la sua filosofia.

Ma prima di parlare del vino, due parole sul MoAn, che è ristorante e al tempo stesso enoteca e winebar e si prefigge di diventare punto d’incontro tra il mangiar bene e il bere meglio, richiamando gli appassionati del vino e della gastronomia con una serie di appuntamenti che permetteranno di scoprire nuovi sapori, colori e profumi. Il concetto del MoAn, una trentina di coperti in sala, più giardino e locale enoteca con tavoli che consentono agli ospiti di sedersi comodamente e abbinare buon cibo e a vini eleganti e sorprendenti, si deve alla passione di Monica Jean-Richard Albertoni e Andrea Bianchi, coppia nella vita e grandi appassionati di enogastronomia. Per realizzare il loro sogno, Monica e Andrea hanno puntato su un giovane chef, Salvo Sanfilippo, un trentenne nato a Bergamo da genitori siciliani e da ormai alcuni anni attivo in Svizzera. Sanfilippo si è fatto le ossa presso il celebre ristorante pluristellato “Da Vittorio” gestito dai fratelli Cerea a Bergamo e poi come fanno molti giovani cuochi per imparare l’arte ha girato mezzo mondo. A Bellinzona il giovane chef vezzeggia i suoi ospiti mettendo in campo le sue tre anime (quella siciliana della terra d’origine, quella bergamasca nella quale è cresciuto e quella ticinese sua terra adottiva) e privilegiando una ricerca accurata di prodotti del territorio. Oddio, se dici pesce di mare c’è poco da ricercare in Ticino e dunque Salvo non si pone limiti, a parte quello relativo al livello di qualità della materia prima. I suoi piatti sono decisi, hanno un taglio netto, deliziano gli occhi e poi il palato. Tra le delizie assaggiate, senza voler far torto ad altri piatti, il risotto Carnaroli al “caciucco moderno” e limone ti porta il mare in bocca, col crudo di pesce abbinato al riso; superbo il vitello al giusto rosa (una riedizione del piemontesissimo vitello tonnato); sapido e ben equilibrato un ragù di coniglio abbinato a paccheri cotti a puntino. Insomma, avanti così.

I vini della cantina Lodali

Ma torniamo ai vini e alla cantina di Walter Lodali, 44 anni, diplomatosi alla Scuola enologica di Alba. Quest’uomo tutto d’un pezzo gestisce – col sostegno fondamentale di mamma Rita – le vigne che arredano le pendici delle stupende colline di proprietà della famiglia e si affacciano tra Treiso e Roddi. Viti di Nebbiolo, in primis, ma anche di Chardonnay, Barbera e Dolcetto.

“La vite e l’ambiente sono il motore di tutto: senza la massima attenzione ed il rispetto per le radici in particolare e poi anche per rami, foglie e grappoli non si può avere un’uva che contenga la magia del grande vino” racconta Lodali, aggiungendo: “In cantina abbiamo rinnovato tutto utilizzando le tecnologie più avanzate, ma soprattutto semplificando al massimo: il buon vino nasce dall’uva migliore, nella trasformazione bisogna poi solo essere delicati e precisi cercando di rispettare il più possibile le caratteristiche del territorio. Insomma: poco uomo e tanta natura”.

 

La sua azienda si è continuamente evoluta e recentemente ha sentito la necessità di rinnovare anche la propria immagine. Ne è nato un nuovo logo, nel segno della continuità, perché racconta Walter, “non potevamo buttare via 80 della nostra storia”. Fatta, aggiungiamo noi, di vini di qualità, e di tanto amore verso il papà Lorenzo, prematuramente scomparso quando Walter era un bambino, e al quale è stata dedicata una linea di vini eleganti e in grado di esprimere grande finezza, che si chiama “Lorens”, il nome del papà in dialetto locale. Per le etichette di questa linea, dice Walter, “non solo è stata ridisegnata la cornice di una vecchia etichetta di Barbaresco, ma per il nome è stata ricreata, dallo studio di un tema scolastico del 1950, la calligrafia di mio papà”.

L’azienda di Tenero nel 2021 ha festeggiato il secolo di vita

 

Nel corso del 2021 Matasci vini ha stappato l’inizio di un nuovo secolo. La sua storia ha inizio nel 1921, quando la viticoltura in Ticino era ancora impresa dei singoli contadini che raccoglievano il frutto della vite per farne la bevanda di casa.
Il giovane Giuseppe Matasci, verzaschese di umili origini, intuisce le potenzialità del mercato organizzando inizialmente la rivendita delle eccedenze dei vari viticoltori della regione di Tenero e Gordola; non soddisfatto della qualità del prodotto a causa soprattutto dei rudimentali metodi di vinificazione di allora, decide di acquistare le uve per vinificarle in proprio. Nel 1921, con il socio Carlo Balemi, fonda la Matasci & Balemi e nel 1924 costruisce la cantina di Tenero con i prestiti ottenuti soprattutto da parenti ed amici grazie alla forza delle sue idee.

Se il fondatore Giuseppe, scomparso nel 1956, ha avuto il merito di lanciare il marchio Matasci, i suoi figli, Peppino, Lino e Mario, hanno consolidato l’azienda investendo in impianti e tecnologia. Nel 1964, da un colpo di genio nasce il Selezione d’Ottobre, un vino in controtendenza al gusto dell’epoca che riscontra subito un grande successo, aprendo di fatto le porte della Svizzera d’oltralpe alla commercializzazione del Merlot. Il Selezione d’Ottobre è stato affiancato, nei decenni, dai vini della Linea Classica, Terroir e Enoteca che rappresentano il Merlot nelle sue diverse potenzialità espressive. L’ingresso in azienda della terza generazione, rappresentata da Pier e Paola Maran-Matasci, da Fabiana Matasci e Mauro Bernardasci, ha contribuito a traghettare la Matasci Vini verso la modernità, con una diversificazione della produzione e il rinnovamento della cantina.
La linea Enoteca in particolare, non ha mancato di portare eccellenti riconoscimenti ai concorsi enologici più importanti, grazie all’accurata selezione delle uve che provengono da vigneti scelti e monitorati con scrupolo in diverse zone del Cantone.

In questo contesto d’eccellenza si inserisce la Cuvée del Centenario, il risultato dell’assemblaggio delle migliori uve vinificate separatamente, dopo spremitura soffice e lunga macerazione, a cui fa seguito un affinamento per 18 mesi in barriques scelte con l’intento di esaltare le caratteristiche del vino. Il Cent conquista per la sua eleganza, finezza e intensità, accompagnate da una bella vitalità che gli dona slancio e armonia. L’etichetta è stata pensata nel segno di un connubio tra passato e futuro, con l’ausilio di una tecnica di stampa complessa, ideata dalla Tipografia Bettini di Lugano.

Matasci è un’azienda fatta di persone e l’ospitalità, con ruolo da pioniere anche nel campo dell’enoturismo, è alla base del suo successo. Questo grazie ai suggestivi spazi d’incontro, dove vengono creati e organizzati eventi di ogni genere: il Caveau Ticino, sostenuto da uno spirito di squadra, vuole essere una vetrina delle eccellenza enologiche del nostro cantone, luogo di incontro, condivisione, formazione e apprendimento, anche grazie alle diverse serate organizzate dalla sommelière Rita Tramontana per rendere onore alle quattro regioni viticole ticinesi; la Villa Jelmini, splendida cornice per accogliere eventi pubblici e privati; il Museo del Vino, magica cantina ricca di storia e, non da ultimo, la Pinacoteca della Fondazione Matasci per l’Arte il cui scopo è di custodire, curare e rendere accessibile al pubblico la raccolta di opere d’Arte della Collezione Matasci.

La quarta generazione della famiglia, impersonificata da Elia Maran e Joel Pfister, sta raccogliendo le sfide che i prossimi anni riserveranno al settore vitivinicolo. Nell’etichetta della Cuvée del centenario il 100 si trasforma in 001, a simboleggiare l’inizio di un nuovo secolo nel segno della fiducia verso il futuro.

Oscar Farinetti nasce ad Alba il 24 settembre 1954. Creatore di Eataly, primo supermercato dedicato all’alta qualità italiana, in dieci anni ha aperto 40 punti vendita in Italia e nel mondo. Il suo ultimo progetto, inaugurato nel 2018 a Bologna, si chiama «Fico Eataly World»: 10 ettari dove trovano posto campi, stalle, 40 fabbriche, altrettanti punti di ristoro, botteghe e mercati per rappresentare la Fabbrica Italiana Contadina. L’ingresso a «Fico» è gratuito. Farinetti ha collaborato con l’Università degli Studi di Parma e la Bocconi di Milano per varie ricerche di mercato e ha pubblicato diversi libri sul tema dell’agroalimentare, ottenendo numerosi riconoscimenti. È un uomo d’azione, con ancora tanti progetti e tante idee da realizzare. Ho potuto incontrarlo e fargli raccontare un po’ di cose, per un articolo finito in un supplemento del Corriere del Ticino (“Il viso del vino”) nel settembre del 2019.

Ecco un estratto di quell’intervista.

Signor Farinetti, tanto per cominciare ci spiega cos’è Eataly e cos’ha di rivoluzionario?
«La cosa più rivoluzionaria è che Eataly è un messaggio semplice, addirittura banale, rivolto all’enogastronomia oggi più riconosciuta e importante al mondo, cioè quella italiana. Vogliamo rappresentare l’Italia per la sua enorme biodiversità agroalimentare che si è trasformata in biodiversità enogastronomica. L’idea è stata di creare luoghi molto grandi dove sia possibile comprare ciò che si può mangiare, mangiare ciò che si può comprare e studiare, imparare, in modo da tornare a casa e replicare ciò che si è assaggiato. Siamo stati i primi al mondo a integrare questi tre momenti: il mercato, la ristorazione e la didattica».

Perché la cucina italiana è la migliore al mondo?
«Intanto perché si basa su prodotti di alta qualità, ma più in generale perché è replicabile. La cucina francese è arrivata 150 anni prima della nostra, ma è stata inventata nei ristoranti, dagli chef, dunque è molto tecnica. La cucina italiana è nata dopo e a inventarla sono state le nostre bis bis bis nonne. È una cucina domestica, che si basa sul manuale di quel genio dell’Artusi, e regionale, che si affida ad una materia prima di qualità. Piatti molto semplici, dunque replicabili ed esportabili in tutto il mondo».

Già: una buona pasta, del pomodoro, dell’olio, un po’ di parmigiano e il piatto è fatto.
«Esatto, ma è importante che la gente faccia attenzione al prodotto che mette nel piatto. Oggi per esempio, in tempi di caporalato, guai a comprare pelati da quattro soldi: bisogna andare su un San Marzano DOP, o per restare in Ticino, su un pomodoro di qualità prodotto in zona».

Tutto bene, ma se non conosciamo direttamente il produttore come possiamo fidarci del prodotto venduto?
«Qui lei tocca uno dei temi fondamentali di questo momento storico: quello della fiducia. La fiducia è un sentimento umano primordiale, che distingue l’essere umano dalle bestie. Come si fa? Occorre farsi conquistare attraverso la verità. Noi per esempio cerchiamo di partire dalla terra, perché parlare di cucina significa narrare l’agricoltura, spiegare come il prodotto viene coltivato, poi raccontare la trasformazione, infine narrare la maniera di cucinarlo. Facendo questo, credo che noi, posso dirlo immodestamente, ci siamo dimostrati credibili e abbiamo conquistato la fiducia di milioni e milioni di clienti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone».

Per essere credibili bisogna anche avere una buona competenza…
«Dice bene. Prima bisogna essere seri, poi bisogna studiare e io e i miei collaboratori in questi primi quindici anni di Eataly abbiamo studiato come dei pazzi. La maggior parte dei nostri collaboratori, quelli che scelgono i prodotti e preparano i menù, sono tutti laureati all’università di scienze gastronomiche di Pollenzo».

Lei parlava di narrazione in merito alla cucina e i prodotti del territorio. È un altro aspetto importante o sbaglio?
«Un fatto non raccontato non esiste e dunque noi abbiamo anche cercato di raccontare il cibo. Lo «storytelling» è diventato fondamentale per farsi conoscere».

Come si concilia il desiderio di prodotti a km zero da parte di una larga fetta di pubblico con la qualità dei prodotti offerti da quella che comunque è grande distribuzione e, visti i numeri, deve per forza affidarsi alla grande industria alimentare?
«Il chilometro zero è una buona idea se viene però interpretata. Utilizza i prodotti base della tua terra se sono buoni, perché sarebbe stupido andare a prenderli da un’altra parte. Poi utilizza prodotti di stagione: non si mangiano le arance in estate e le fragole d’inverno perché arrivano dall’altra parte del mondo. Questo però non significa che non bisogna mangiare le grandi specialità che arrivano da tutto il mondo. Se voglio mangiare una grande arancia, dev’essere siciliana e per arrivare dove stiamo noi ci sono mille chilometri da percorrere. Sarebbe invece stupido se comprassi una carota siciliana, perché ce ne sono di ottime anche qui. Il km zero interpretato come autarchia totale, ossia mangia solo le cose prodotte nel tuo territorio, è una stupidaggine. Quindi dobbiamo spostare le eccellenze del mondo, perché se fermiamo la libera circolazione delle cose buone fermiamo anche la circolazione delle buone idee».

Tutto bene, ma se non conosciamo direttamente il produttore come possiamo fidarci del prodotto venduto?
«Qui lei tocca uno dei temi fondamentali di questo momento storico: quello della fiducia. La fiducia è un sentimento umano primordiale, che distingue l’essere umano dalle bestie. Come si fa? Occorre farsi conquistare attraverso la verità. Noi per esempio cerchiamo di partire dalla terra, perché parlare di cucina significa narrare l’agricoltura, spiegare come il prodotto viene coltivato, poi raccontare la trasformazione, infine narrare la maniera di cucinarlo. Facendo questo, credo che noi, posso dirlo immodestamente, ci siamo dimostrati credibili e abbiamo conquistato la fiducia di milioni e milioni di clienti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone».

Eataly esporta il made in Italy ed è presente in tutto il mondo, ma come vi regolate con i prodotti locali nelle vostre sedi all’estero?
«Quando apriamo una sede di Eataly a New York o Istanbul o San Paolo del Brasile, mesi e mesi prima cominciamo a setacciare il territorio alla ricerca di prodotti locali di qualità. Se su quel territorio trovo una grande farina o un grande latte, è stupido che io vi rinunci per far arrivare il prodotto dall’Italia. Sono stato criticato, ma ho detto e sono convinto che nel mondo si producano grani duri di altissima qualità e in certi casi anche più buoni di quelli italiani».

La grande distribuzione esercita costantemente una pressione al ribasso sui prezzi dei prodotti agricoli. Non finirà per doverne un giorno pagare le conseguenze?
«Temo di sì e in ogni caso di questa tendenza penso tutto il male possibile, perché la grande distribuzione non riesce purtroppo ad esprimere altra fantasia che il prezzo del prodotto. Il consumatore abbocca alle promozioni e ai “tre per due”, una vera stupidaggine perché non tiene conto che il cibo è l’unico prodotto che mettiamo nel nostro corpo e dunque deve essere di alta qualità. Se dobbiamo risparmiare, lo possiamo fare su altre cose. Compriamo allora prodotti di alta qualità che costano il doppio rispetto agli altri e magari ne consumiamo la metà, tanto pare che il 40% del cibo che compriamo lo buttiamo via». Siamo strani, noi esseri umani. Ci innamoriamo dei programmi di cucina in televisione, ma abbiamo ancora capito poco di come si deve mangiare. È d’accordo? «Però è sicuro che rispetto a quindici o vent’anni fa siamo migliorati. Il problema è che gli chef in tivù non parlano mai dei prodotti, ma della tecnica. Se usano un pezzo di carne non dicono da che tipo di allevamento deve arrivare, se aggiungono dell’olio al piatto non spiegano qual è il migliore. Spero che arriverà il giorno in cui si farà. Un prodotto sano fa meglio a noi perché è buono e se è buono sarà fatto senza utilizzare la chimica e dunque farà star meglio anche il mondo».

Ci parli del suo rapporto con Slowfood. Com’è nato? Come si concretizza?
«Io ho sempre fatto parte del movimento e ho sempre ammirato Carlin Petrini, il fondatore. Quando ho deciso di fondare Eataly, è stato il primo che ho chiamato per chiedergli un parere, dopo di che abbiamo stabilito un rapporto di consulenza. Ci sono persone di Slowfood che collaborano con Eataly per tutta una serie di valori che vanno dalla ricerca dei fornitori allo studio e all’analisi dei prodotti, fino alla narrazione e a operazioni promozionali che non sono fatte sui prezzi, come quella che abbiamo fatto in favore delle api».

Sarebbe?
«Che c’è un grosso problema nel mondo, la moria di api. E senza api non ci sarà più la frutta né buona parte delle verdure. Il progetto si chiama «Bee the Future»: si tratta di un impegno di tre anni nella riforestazione di 100 ettari in Italia con i fiori amati dalle api: l’obiettivo è riportare la biodiversità delle piante infestanti in quelle zone dove, a causa di metodi agricoli basati sull’alto rendimento dei terreni, sta scomparendo » Lei verrà in Ticino nei prossimi giorni, ma è di Alba, a due passi da noi e sicuramente conoscerà un po’ il nostro territorio. Che mi dice? «Che vivete in uno dei posti più belli del mondo e conosco anche il vostro fantastico Merlot, il quale ha conosciuto un successo straordinario e con gli anni è diventato sempre più buono. Ma so che producete anche dei formaggi eccellenti, cosa che del resto è normale, visto che siete una regione di montagna e il formaggio migliore è quello prodotto in montagna».

E che consiglio ci darebbe per cercare di propagandare questi prodotti?
«Quando si hanno cose straordinarie non bisogna tenerle nascoste, ma farle conoscere. E per farle conoscere bisogna raccontarle. Torniamo al discorso di prima, allo «storytelling». Io non so quanta gente del Nord Italia è a conoscenza del fatto che in Ticino si produce uno dei migliori Merlot al mondo. Raccontatelo! Avete la bellezza del paesaggio, un ottimo vino, ottimi formaggi, ci sono gli ingredienti anche per generare turismo, per fare arrivare da voi gente da ogni parte del mondo».

 

In questa sezione proverò a portarvi alla scoperta di alcuni vini che ho avuto la fortuna di conoscere e degustare, sia in Ticino, sia all’estero…

Se ci chiedessimo qual è il vino adatto ad accompagnare le festività di fine anno di sicuro non riceveremmo una risposta univoca. L’intenditore direbbe «dipende», pensando – giustamente – che il vino si abbina al cibo e dunque la scelta è ampia, per non dire sconfinata. Però su un aspetto quasi tutti sarebbero d’accordo: non c’è festa senza bollicine e tra le infinite varietà dei brut e degli spumanti, l’eccellenza è ancora e sempre costituita dallo Champagne.
Un vino che si può anche bere a tutto pasto, dall’aperitivo al dessert, come ci ha confermato una serata trascorsa alla Locanda Orico, di proprietà del più longevo chef stellato del Ticino, Lorenzo Albrici, che è di casa a Bellinzona.
L’occasione si è manifestata festeggiando il bicentenario della nascita dello Champagne rosato nel 2018, quando Lorenzo Albrici ce lo ha proposto (in versione La Grande Dame 2006 di Veuve Clicquot) addirittura come accompagnamento di un filetto di vitello del Muotathal, cotto rosa e intero al forno, una vera delizia.
Troppo facile, invece, immaginare lo Champagne rosé sulle code di scampi scottate, servite su un cespuglio di insalatine insaporite ai calamaretti spillo trifolati; oppure su un pavé di rombo selvatico dorato adagiato in una crema di topinambur al caviale Osciètre, altri componenti della proposta d’alta scuola di Albrici.

 

Volete sorprendere i vostri famigliari o i vostri ospiti? Bene, allora seguiteci: vi raccontiamo la storia della nascita dello Champagne rosé, che come abbiamo detto ha visto la luce nel 1818, da un’intuizione di una donna, Madame Barbe-Nicole Clicquot, nata Ponsardin.
Questa donna straordinaria, figlia del sindaco di Reims, maritò il figlio del fondatore della Maison Clicquot, Philippe, che morì lasciandola vedova nel 1805. Barbe, forte e intraprendente, non si rassegnò a rimanere ai margini dell’impresa di famiglia, ma ne ereditò la direzione.

Aveva 27 anni e dovette battersi contro i pregiudizi e le leggi di allora, che avevano scarsa considerazione (eufemismo) della figura femminile. Nel 1814 la signora Clicquot riuscì ad aggirare il blocco continentale imposto anche alla Russia da Napoleone, mandando il suo Champagne a San Pietroburgo, dove fu accolto trionfalmente. Quattro anni più tardi, la signora ha un’intuizione che cambierà la storia del vino dei re, sin lì vinificato soltanto in bianco. Anzi no: perché c’era stato pure un tentativo di creare uno Champagne rosé e per farlo si aggiungeva al vino vinificato in bianco del succo di… sambuco. Una pratica abiurata da Madame Clicquot, la quale aveva gusti raffinati e grandi capacità degustative.

Delphine Laborde

E come nasce il primo rosato? La signora intuisce che un buon assemblaggio tra bianchi e rossi può dare ottimi risultati e allora vinifica uva rossa della miglior qualità, proveniente dalle vigne di Bouzy, nella Champagne, e invita i suoi enologi di allora a miscelare sapientemente bianco e rosso per esaltare profumi e sapori che, ancora oggi, caratterizzano i vini dell’azienda, rimasta fedele al metodo originale inventato da quella che tutti chiamavano «La Grande Dame», in onore della quale è stato proprio creato un  grande Champagne della marca.
«Da Veuve Clicquot elaboriamo sempre lo Champagne rosato assemblandolo al vino rosso secondo il metodo di Madame Clicquot inventato 200 anni fa. Questa nostra capacità di attenerci al metodo tradizionale ci permette di creare dei rosati dal gusto preciso, fruttato, intenso ed elegante» raccontava Delphine Laborde enologa presso Veuve Clicquot, che ha ben assimilato la filosofia di quella che si può ben definire la fondatrice della casa, almeno nella sua versione moderna.
Per ottenere una bottiglia di rosé, Veuve Clicquot mescola da 50 a 60 differenti crus, a partire dal Veuve Clicquot Brut Carte Jaune, composto da 50 a 55% di Pinot Noir, da 15 a 20% di Pinot Meunier, da 28 a 33% di Chardonnay e, infine, da un 12% di Pinot Noir de Bouzy (rosso). Inutile dire che oggi tutte le cantine più importanti che producono Champagne hanno anche una propria versione rosé, tanto che la produzione di questo segmento rappresenta quasi il 10% del totale. Se vent’anni fa il rosato era considerato soprattutto un vino per signore, oggi questo vino appassiona anche i maschietti e il suo gradimento è in vigorosa crescita. La produzione avviene in due modi: vinificando in rosa le uve rosse (rosé da macerazione) o assemblando vini bianchi e rossi (rosé da assemblaggio).