L’azienda di Tenero nel 2021 ha festeggiato il secolo di vita

 

Nel corso del 2021 Matasci vini ha stappato l’inizio di un nuovo secolo. La sua storia ha inizio nel 1921, quando la viticoltura in Ticino era ancora impresa dei singoli contadini che raccoglievano il frutto della vite per farne la bevanda di casa.
Il giovane Giuseppe Matasci, verzaschese di umili origini, intuisce le potenzialità del mercato organizzando inizialmente la rivendita delle eccedenze dei vari viticoltori della regione di Tenero e Gordola; non soddisfatto della qualità del prodotto a causa soprattutto dei rudimentali metodi di vinificazione di allora, decide di acquistare le uve per vinificarle in proprio. Nel 1921, con il socio Carlo Balemi, fonda la Matasci & Balemi e nel 1924 costruisce la cantina di Tenero con i prestiti ottenuti soprattutto da parenti ed amici grazie alla forza delle sue idee.

Se il fondatore Giuseppe, scomparso nel 1956, ha avuto il merito di lanciare il marchio Matasci, i suoi figli, Peppino, Lino e Mario, hanno consolidato l’azienda investendo in impianti e tecnologia. Nel 1964, da un colpo di genio nasce il Selezione d’Ottobre, un vino in controtendenza al gusto dell’epoca che riscontra subito un grande successo, aprendo di fatto le porte della Svizzera d’oltralpe alla commercializzazione del Merlot. Il Selezione d’Ottobre è stato affiancato, nei decenni, dai vini della Linea Classica, Terroir e Enoteca che rappresentano il Merlot nelle sue diverse potenzialità espressive. L’ingresso in azienda della terza generazione, rappresentata da Pier e Paola Maran-Matasci, da Fabiana Matasci e Mauro Bernardasci, ha contribuito a traghettare la Matasci Vini verso la modernità, con una diversificazione della produzione e il rinnovamento della cantina.
La linea Enoteca in particolare, non ha mancato di portare eccellenti riconoscimenti ai concorsi enologici più importanti, grazie all’accurata selezione delle uve che provengono da vigneti scelti e monitorati con scrupolo in diverse zone del Cantone.

In questo contesto d’eccellenza si inserisce la Cuvée del Centenario, il risultato dell’assemblaggio delle migliori uve vinificate separatamente, dopo spremitura soffice e lunga macerazione, a cui fa seguito un affinamento per 18 mesi in barriques scelte con l’intento di esaltare le caratteristiche del vino. Il Cent conquista per la sua eleganza, finezza e intensità, accompagnate da una bella vitalità che gli dona slancio e armonia. L’etichetta è stata pensata nel segno di un connubio tra passato e futuro, con l’ausilio di una tecnica di stampa complessa, ideata dalla Tipografia Bettini di Lugano.

Matasci è un’azienda fatta di persone e l’ospitalità, con ruolo da pioniere anche nel campo dell’enoturismo, è alla base del suo successo. Questo grazie ai suggestivi spazi d’incontro, dove vengono creati e organizzati eventi di ogni genere: il Caveau Ticino, sostenuto da uno spirito di squadra, vuole essere una vetrina delle eccellenza enologiche del nostro cantone, luogo di incontro, condivisione, formazione e apprendimento, anche grazie alle diverse serate organizzate dalla sommelière Rita Tramontana per rendere onore alle quattro regioni viticole ticinesi; la Villa Jelmini, splendida cornice per accogliere eventi pubblici e privati; il Museo del Vino, magica cantina ricca di storia e, non da ultimo, la Pinacoteca della Fondazione Matasci per l’Arte il cui scopo è di custodire, curare e rendere accessibile al pubblico la raccolta di opere d’Arte della Collezione Matasci.

La quarta generazione della famiglia, impersonificata da Elia Maran e Joel Pfister, sta raccogliendo le sfide che i prossimi anni riserveranno al settore vitivinicolo. Nell’etichetta della Cuvée del centenario il 100 si trasforma in 001, a simboleggiare l’inizio di un nuovo secolo nel segno della fiducia verso il futuro.

Oscar Farinetti nasce ad Alba il 24 settembre 1954. Creatore di Eataly, primo supermercato dedicato all’alta qualità italiana, in dieci anni ha aperto 40 punti vendita in Italia e nel mondo. Il suo ultimo progetto, inaugurato nel 2018 a Bologna, si chiama «Fico Eataly World»: 10 ettari dove trovano posto campi, stalle, 40 fabbriche, altrettanti punti di ristoro, botteghe e mercati per rappresentare la Fabbrica Italiana Contadina. L’ingresso a «Fico» è gratuito. Farinetti ha collaborato con l’Università degli Studi di Parma e la Bocconi di Milano per varie ricerche di mercato e ha pubblicato diversi libri sul tema dell’agroalimentare, ottenendo numerosi riconoscimenti. È un uomo d’azione, con ancora tanti progetti e tante idee da realizzare. Ho potuto incontrarlo e fargli raccontare un po’ di cose, per un articolo finito in un supplemento del Corriere del Ticino (“Il viso del vino”) nel settembre del 2019.

Ecco un estratto di quell’intervista.

Signor Farinetti, tanto per cominciare ci spiega cos’è Eataly e cos’ha di rivoluzionario?
«La cosa più rivoluzionaria è che Eataly è un messaggio semplice, addirittura banale, rivolto all’enogastronomia oggi più riconosciuta e importante al mondo, cioè quella italiana. Vogliamo rappresentare l’Italia per la sua enorme biodiversità agroalimentare che si è trasformata in biodiversità enogastronomica. L’idea è stata di creare luoghi molto grandi dove sia possibile comprare ciò che si può mangiare, mangiare ciò che si può comprare e studiare, imparare, in modo da tornare a casa e replicare ciò che si è assaggiato. Siamo stati i primi al mondo a integrare questi tre momenti: il mercato, la ristorazione e la didattica».

Perché la cucina italiana è la migliore al mondo?
«Intanto perché si basa su prodotti di alta qualità, ma più in generale perché è replicabile. La cucina francese è arrivata 150 anni prima della nostra, ma è stata inventata nei ristoranti, dagli chef, dunque è molto tecnica. La cucina italiana è nata dopo e a inventarla sono state le nostre bis bis bis nonne. È una cucina domestica, che si basa sul manuale di quel genio dell’Artusi, e regionale, che si affida ad una materia prima di qualità. Piatti molto semplici, dunque replicabili ed esportabili in tutto il mondo».

Già: una buona pasta, del pomodoro, dell’olio, un po’ di parmigiano e il piatto è fatto.
«Esatto, ma è importante che la gente faccia attenzione al prodotto che mette nel piatto. Oggi per esempio, in tempi di caporalato, guai a comprare pelati da quattro soldi: bisogna andare su un San Marzano DOP, o per restare in Ticino, su un pomodoro di qualità prodotto in zona».

Tutto bene, ma se non conosciamo direttamente il produttore come possiamo fidarci del prodotto venduto?
«Qui lei tocca uno dei temi fondamentali di questo momento storico: quello della fiducia. La fiducia è un sentimento umano primordiale, che distingue l’essere umano dalle bestie. Come si fa? Occorre farsi conquistare attraverso la verità. Noi per esempio cerchiamo di partire dalla terra, perché parlare di cucina significa narrare l’agricoltura, spiegare come il prodotto viene coltivato, poi raccontare la trasformazione, infine narrare la maniera di cucinarlo. Facendo questo, credo che noi, posso dirlo immodestamente, ci siamo dimostrati credibili e abbiamo conquistato la fiducia di milioni e milioni di clienti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone».

Per essere credibili bisogna anche avere una buona competenza…
«Dice bene. Prima bisogna essere seri, poi bisogna studiare e io e i miei collaboratori in questi primi quindici anni di Eataly abbiamo studiato come dei pazzi. La maggior parte dei nostri collaboratori, quelli che scelgono i prodotti e preparano i menù, sono tutti laureati all’università di scienze gastronomiche di Pollenzo».

Lei parlava di narrazione in merito alla cucina e i prodotti del territorio. È un altro aspetto importante o sbaglio?
«Un fatto non raccontato non esiste e dunque noi abbiamo anche cercato di raccontare il cibo. Lo «storytelling» è diventato fondamentale per farsi conoscere».

Come si concilia il desiderio di prodotti a km zero da parte di una larga fetta di pubblico con la qualità dei prodotti offerti da quella che comunque è grande distribuzione e, visti i numeri, deve per forza affidarsi alla grande industria alimentare?
«Il chilometro zero è una buona idea se viene però interpretata. Utilizza i prodotti base della tua terra se sono buoni, perché sarebbe stupido andare a prenderli da un’altra parte. Poi utilizza prodotti di stagione: non si mangiano le arance in estate e le fragole d’inverno perché arrivano dall’altra parte del mondo. Questo però non significa che non bisogna mangiare le grandi specialità che arrivano da tutto il mondo. Se voglio mangiare una grande arancia, dev’essere siciliana e per arrivare dove stiamo noi ci sono mille chilometri da percorrere. Sarebbe invece stupido se comprassi una carota siciliana, perché ce ne sono di ottime anche qui. Il km zero interpretato come autarchia totale, ossia mangia solo le cose prodotte nel tuo territorio, è una stupidaggine. Quindi dobbiamo spostare le eccellenze del mondo, perché se fermiamo la libera circolazione delle cose buone fermiamo anche la circolazione delle buone idee».

Tutto bene, ma se non conosciamo direttamente il produttore come possiamo fidarci del prodotto venduto?
«Qui lei tocca uno dei temi fondamentali di questo momento storico: quello della fiducia. La fiducia è un sentimento umano primordiale, che distingue l’essere umano dalle bestie. Come si fa? Occorre farsi conquistare attraverso la verità. Noi per esempio cerchiamo di partire dalla terra, perché parlare di cucina significa narrare l’agricoltura, spiegare come il prodotto viene coltivato, poi raccontare la trasformazione, infine narrare la maniera di cucinarlo. Facendo questo, credo che noi, posso dirlo immodestamente, ci siamo dimostrati credibili e abbiamo conquistato la fiducia di milioni e milioni di clienti in tutto il mondo, dagli Stati Uniti al Giappone».

Eataly esporta il made in Italy ed è presente in tutto il mondo, ma come vi regolate con i prodotti locali nelle vostre sedi all’estero?
«Quando apriamo una sede di Eataly a New York o Istanbul o San Paolo del Brasile, mesi e mesi prima cominciamo a setacciare il territorio alla ricerca di prodotti locali di qualità. Se su quel territorio trovo una grande farina o un grande latte, è stupido che io vi rinunci per far arrivare il prodotto dall’Italia. Sono stato criticato, ma ho detto e sono convinto che nel mondo si producano grani duri di altissima qualità e in certi casi anche più buoni di quelli italiani».

La grande distribuzione esercita costantemente una pressione al ribasso sui prezzi dei prodotti agricoli. Non finirà per doverne un giorno pagare le conseguenze?
«Temo di sì e in ogni caso di questa tendenza penso tutto il male possibile, perché la grande distribuzione non riesce purtroppo ad esprimere altra fantasia che il prezzo del prodotto. Il consumatore abbocca alle promozioni e ai “tre per due”, una vera stupidaggine perché non tiene conto che il cibo è l’unico prodotto che mettiamo nel nostro corpo e dunque deve essere di alta qualità. Se dobbiamo risparmiare, lo possiamo fare su altre cose. Compriamo allora prodotti di alta qualità che costano il doppio rispetto agli altri e magari ne consumiamo la metà, tanto pare che il 40% del cibo che compriamo lo buttiamo via». Siamo strani, noi esseri umani. Ci innamoriamo dei programmi di cucina in televisione, ma abbiamo ancora capito poco di come si deve mangiare. È d’accordo? «Però è sicuro che rispetto a quindici o vent’anni fa siamo migliorati. Il problema è che gli chef in tivù non parlano mai dei prodotti, ma della tecnica. Se usano un pezzo di carne non dicono da che tipo di allevamento deve arrivare, se aggiungono dell’olio al piatto non spiegano qual è il migliore. Spero che arriverà il giorno in cui si farà. Un prodotto sano fa meglio a noi perché è buono e se è buono sarà fatto senza utilizzare la chimica e dunque farà star meglio anche il mondo».

Ci parli del suo rapporto con Slowfood. Com’è nato? Come si concretizza?
«Io ho sempre fatto parte del movimento e ho sempre ammirato Carlin Petrini, il fondatore. Quando ho deciso di fondare Eataly, è stato il primo che ho chiamato per chiedergli un parere, dopo di che abbiamo stabilito un rapporto di consulenza. Ci sono persone di Slowfood che collaborano con Eataly per tutta una serie di valori che vanno dalla ricerca dei fornitori allo studio e all’analisi dei prodotti, fino alla narrazione e a operazioni promozionali che non sono fatte sui prezzi, come quella che abbiamo fatto in favore delle api».

Sarebbe?
«Che c’è un grosso problema nel mondo, la moria di api. E senza api non ci sarà più la frutta né buona parte delle verdure. Il progetto si chiama «Bee the Future»: si tratta di un impegno di tre anni nella riforestazione di 100 ettari in Italia con i fiori amati dalle api: l’obiettivo è riportare la biodiversità delle piante infestanti in quelle zone dove, a causa di metodi agricoli basati sull’alto rendimento dei terreni, sta scomparendo » Lei verrà in Ticino nei prossimi giorni, ma è di Alba, a due passi da noi e sicuramente conoscerà un po’ il nostro territorio. Che mi dice? «Che vivete in uno dei posti più belli del mondo e conosco anche il vostro fantastico Merlot, il quale ha conosciuto un successo straordinario e con gli anni è diventato sempre più buono. Ma so che producete anche dei formaggi eccellenti, cosa che del resto è normale, visto che siete una regione di montagna e il formaggio migliore è quello prodotto in montagna».

E che consiglio ci darebbe per cercare di propagandare questi prodotti?
«Quando si hanno cose straordinarie non bisogna tenerle nascoste, ma farle conoscere. E per farle conoscere bisogna raccontarle. Torniamo al discorso di prima, allo «storytelling». Io non so quanta gente del Nord Italia è a conoscenza del fatto che in Ticino si produce uno dei migliori Merlot al mondo. Raccontatelo! Avete la bellezza del paesaggio, un ottimo vino, ottimi formaggi, ci sono gli ingredienti anche per generare turismo, per fare arrivare da voi gente da ogni parte del mondo».

 

In questa sezione proverò a portarvi alla scoperta di alcuni vini che ho avuto la fortuna di conoscere e degustare, sia in Ticino, sia all’estero…

Se ci chiedessimo qual è il vino adatto ad accompagnare le festività di fine anno di sicuro non riceveremmo una risposta univoca. L’intenditore direbbe «dipende», pensando – giustamente – che il vino si abbina al cibo e dunque la scelta è ampia, per non dire sconfinata. Però su un aspetto quasi tutti sarebbero d’accordo: non c’è festa senza bollicine e tra le infinite varietà dei brut e degli spumanti, l’eccellenza è ancora e sempre costituita dallo Champagne.
Un vino che si può anche bere a tutto pasto, dall’aperitivo al dessert, come ci ha confermato una serata trascorsa alla Locanda Orico, di proprietà del più longevo chef stellato del Ticino, Lorenzo Albrici, che è di casa a Bellinzona.
L’occasione si è manifestata festeggiando il bicentenario della nascita dello Champagne rosato nel 2018, quando Lorenzo Albrici ce lo ha proposto (in versione La Grande Dame 2006 di Veuve Clicquot) addirittura come accompagnamento di un filetto di vitello del Muotathal, cotto rosa e intero al forno, una vera delizia.
Troppo facile, invece, immaginare lo Champagne rosé sulle code di scampi scottate, servite su un cespuglio di insalatine insaporite ai calamaretti spillo trifolati; oppure su un pavé di rombo selvatico dorato adagiato in una crema di topinambur al caviale Osciètre, altri componenti della proposta d’alta scuola di Albrici.

 

Volete sorprendere i vostri famigliari o i vostri ospiti? Bene, allora seguiteci: vi raccontiamo la storia della nascita dello Champagne rosé, che come abbiamo detto ha visto la luce nel 1818, da un’intuizione di una donna, Madame Barbe-Nicole Clicquot, nata Ponsardin.
Questa donna straordinaria, figlia del sindaco di Reims, maritò il figlio del fondatore della Maison Clicquot, Philippe, che morì lasciandola vedova nel 1805. Barbe, forte e intraprendente, non si rassegnò a rimanere ai margini dell’impresa di famiglia, ma ne ereditò la direzione.

Aveva 27 anni e dovette battersi contro i pregiudizi e le leggi di allora, che avevano scarsa considerazione (eufemismo) della figura femminile. Nel 1814 la signora Clicquot riuscì ad aggirare il blocco continentale imposto anche alla Russia da Napoleone, mandando il suo Champagne a San Pietroburgo, dove fu accolto trionfalmente. Quattro anni più tardi, la signora ha un’intuizione che cambierà la storia del vino dei re, sin lì vinificato soltanto in bianco. Anzi no: perché c’era stato pure un tentativo di creare uno Champagne rosé e per farlo si aggiungeva al vino vinificato in bianco del succo di… sambuco. Una pratica abiurata da Madame Clicquot, la quale aveva gusti raffinati e grandi capacità degustative.

Delphine Laborde

E come nasce il primo rosato? La signora intuisce che un buon assemblaggio tra bianchi e rossi può dare ottimi risultati e allora vinifica uva rossa della miglior qualità, proveniente dalle vigne di Bouzy, nella Champagne, e invita i suoi enologi di allora a miscelare sapientemente bianco e rosso per esaltare profumi e sapori che, ancora oggi, caratterizzano i vini dell’azienda, rimasta fedele al metodo originale inventato da quella che tutti chiamavano «La Grande Dame», in onore della quale è stato proprio creato un  grande Champagne della marca.
«Da Veuve Clicquot elaboriamo sempre lo Champagne rosato assemblandolo al vino rosso secondo il metodo di Madame Clicquot inventato 200 anni fa. Questa nostra capacità di attenerci al metodo tradizionale ci permette di creare dei rosati dal gusto preciso, fruttato, intenso ed elegante» raccontava Delphine Laborde enologa presso Veuve Clicquot, che ha ben assimilato la filosofia di quella che si può ben definire la fondatrice della casa, almeno nella sua versione moderna.
Per ottenere una bottiglia di rosé, Veuve Clicquot mescola da 50 a 60 differenti crus, a partire dal Veuve Clicquot Brut Carte Jaune, composto da 50 a 55% di Pinot Noir, da 15 a 20% di Pinot Meunier, da 28 a 33% di Chardonnay e, infine, da un 12% di Pinot Noir de Bouzy (rosso). Inutile dire che oggi tutte le cantine più importanti che producono Champagne hanno anche una propria versione rosé, tanto che la produzione di questo segmento rappresenta quasi il 10% del totale. Se vent’anni fa il rosato era considerato soprattutto un vino per signore, oggi questo vino appassiona anche i maschietti e il suo gradimento è in vigorosa crescita. La produzione avviene in due modi: vinificando in rosa le uve rosse (rosé da macerazione) o assemblando vini bianchi e rossi (rosé da assemblaggio).

 

L’onore di aprire la prima bottiglia della nuova Cuvée des Sommeliers, annata 2017, non poteva che spettare ad Anna Valli, presidente dell’Associazione che rappresenta i sommeliers della Svizzera Italiana (ASSP). Sul suo volto, un largo sorriso, condiviso appena più tardi da tutti i convenuti presso l’azienda vitivinicola Tamborini per assistere alla presentazione di questa bottiglia, ormai un classico nell’ambito del panorama enologico cantonale. Merlot vinificato in purezza, affinato in barriques per 20 mesi, un vino molto ricco, non filtrato, che sicuramente saprà dare grandi soddisfazioni negli anni a venire, perché stiamo parlando di un Merlot capace di invecchiare bene, ma che già adesso è apparso convincente per la sua struttura, il suo equilibrio e la sua eleganza.

Anna Valli tra Claudio Tamborini (a sin.) e Piero Tenca

L’idea di realizzare una Cuvée dei Sommeliers è partita nell’ormai lontano 1990, nata dal desiderio di stringere il legame che unisce i produttori di vino ticinesi e i sommeliers, che sono gli ambasciatori del vino e dunque, di riflesso, anche di chi lo produce. Finora sono state prodotte dodici Cuvée e quella presentata ieri è l’ultima della serie.

Vinificato con sapienza dalla Tamborini Carlo SA e in particolare dal suo enologo di riferimento, Luca Biffi, questo vino dallo spirito bordolese, per dirla con Claudio Tamborini, è frutto della vendemmia che la grande famiglia dei sommeliers della Svizzera Italiana ha fatto il 17 settembre del 2017 nella storica tenuta Tamborini di Castelrotto, culla del Merlot ticinese.

In una splendida giornata, una novantina di persone aveva raccolto in poche ore 1500 kg di uva, dalla quale è nato questo vino che a quattro anni di distanza è pronto per il consumo.

Speciale, anche l’etichetta, che ricorda il luogo di provenienza dell’uva e riporta il simbolo storico dei sommeliers, il tastevin, piccola ciotola d’argento che veniva utilizzata per la degustazione del vino e portata al collo come emblema della confraternita.

La Cuvée 2017 è una produzione limitata a 400 bottiglie Magnum (1,5 litri) ed è destinata ai soci dell’Associazione regionale e di tutta la Svizzera, ai ristoratori e agli albergatori. Verrà inoltre presentata al concorso Meilleur Sommelier Svizzero che si terrà a Lugano il prossimo 10 ottobre e serve anche da biglietto da visita per l’ASSP ai concorsi internazionali di Sommellerie e in occasione di viaggi ufficiali all’estero.

L’enologo Luca Biffi che ha curato la cuvée dei Sommelier

Due ore di viaggio in auto dal Ticino ti catapultano in un mondo che offre un’incredibile varietà di paesaggi, la pianura coi suoi campi a perdita d’occhio, colline e vallate ricche di vigneti, alture ricoperte da boschi che in autunno regalano colori meravigliosi.

Siamo nell’Oltrepò più volte celebrato da Gianni Brera, un lembo di terra che si estende tra Pavia, Alessandria e Piacenza. Terra di vini e prelibatezze gastronomiche, perché l’Oltrepò si trova a sud del fiume Po, all’estremo confine della Lombardia con l’Emilia e la Liguria, ma pure col Piemonte, per cui da queste parti è possibile reperire anche il tartufo.

È di vini però che vogliamo parlare e senza voler far torto alla Bonarda, al Sangue di Giuda, alla Barbera o al Buttafuoco che vengono prodotti su queste colline, è il Pinot Nero che vogliamo celebrare, perché questo vitigno versatile nell’Oltrepò si declina con maestria in una bollicina elegante prodotta col metodo classico e in un rosso strutturato che regala sensazioni forti. Un solo vitigno, ma due anime distinte.

Anche se, come sostiene il direttore del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese Carlo Veronese “non si può identificare la produzione del nostro territorio unicamente col Pinot” data la numerosa varietà di vitigni coltivati, il Pinot può “rappresentare il minimo comun denominatore di questo territorio e promuovere una sua visione unitaria”. Della quale, sentendo molti produttori, nell’Oltrepò c’è veramente bisogno, per riscattare un recente passato enologico che ha forse vissuto un po’ troppo sugli allori e sulla vicinanza di Milano, una grande metropoli che ha alimentato il commercio a volte senza badare troppo alla qualità del prodotto.

L’Oltrepò pavese ha una storia secolare alle spalle e una vocazione enologica riconosciuta fin da prima di Cristo, messa a frutto dagli spumantisti piemontesi a partire dal 1800 e dai viticoltori locali ai giorni nostri.

Originario della Borgogna, dove si utilizza per produrre vini rossi, e coltivato anche nello Champagne come base spumante, il Pinot Nero è arrivato in Italia in tempi relativamente recenti. La raffinatezza e la versatilità delle sue uve ne fanno un vitigno ricercato, ma la delicatezza e le difficoltà della sua coltivazione lo rendono adatto solo ad aree particolarmente vocate. Con i suoi 3.500 ettari impiantati di Pinot Nero (su 13.000 complessivi di svariati vitigni), l’Oltrepò Pavese è il terzo produttore in Europa di Pinot Nero dopo le due regioni francesi sopracitate di Borgogna e Champagne.

La rinascita del Pinot Nero da queste parti passa anche dalla volontà di alzare sempre più l’asticella della qualità, promuovendo una coltivazione sempre più rispettosa dell’ambiente e delle esigenze del consumatore e portata avanti da aziende in buona parte a conduzione famigliare. Collaborare, scambiarsi esperienze, confrontarsi: sono argomenti all’ordine del giorno tra quella parte di produttori più avveduti che credono in una rinascita del settore vitivinicolo dell’Oltrepò.

La produzione delle bollicine col metodo classico sta vivendo una vera e propria rivoluzione, con un interesse crescente per la rivendicazione della Docg Oltrepò Pavese Metodo Classico.

Vinificato in purezza o con una piccola percentuale di Chardonnay (ma si parla di introdurre nel disciplinare anche il Pinot Meunier, tanto per gradire la formula champenoise), affinato a lungo sui lieviti (il La Piotta 80/90 2013 Pas Dosé Vsq ci rimane per 60 mesi, il Farfalla Cave Privée di Ballabio addirittura 96!), lo spumante di Pinot nero dell’Oltrepò si distingue per la sua eleganza, il buon tenore di acidità, una bollicina quasi sempre fine e persistente, una cremosità avvolgente e una bella profondità aromatica.

Se il tempo lavora bene sulle bollicine, lo stesso è in grado di fare sui rossi, vini vivaci e ben equilibrati. Il fronte dei produttori è variegato nel suo approccio con la vinificazione, che si esprime sia con invecchiamenti in botti di rovere di varie dimensioni, sia con la freschezza giovani nettari che hanno conosciuto soltanto l’acciaio.

 

Un po’ di Ticino nell’Oltrepò…

L’incontro coi produttori dell’Oltrepò a Casteggio ci regala anche scoperte curiose e interessanti. Quella con i proprietari dell’azienda agricola “La Piotta” per esempio, che dal 2005 è certificata biologica e ha la sua sede a Montalto Pavese. Fondata da nonno Luigi Padroggi nel 1985, l’azienda è stata portata avanti dai figli Gabriele e Mario, oggi affiancati dalla terza generazione rappresentata dai giovani Luca ed Enrico. Il nome ci incuriosisce, facciamo presente ai ragazzi che in Ticino una squadra di hockey su ghiaccio che rappresenta un unicum nel suo genere porta (almeno in parte) quel nome.

“Ambrì Piotta! Sì, lo sappiamo e qualche anno fa siamo stati contattati da un commerciante di vini ticinesi che ci ha parlato della squadra dicendosi interessato ai nostri vini. La cosa però è morta lì, non l’abbiamo più sentito”.

Paolo Verdi dell’omonima azienda a Canneto Pavese, appassionato di vino e di sci

Paolo Verdi dell’azienda Bruno Verdi a Canneto Pavese prima di diventare produttore di vini aveva un sogno: diventare sciatore. I suoi vini sono di qualità, la sua passione per gli sport invernali smisurata. Negli anni Settanta e Ottanta seguiva le gare di Coppa del mondo tramite la nostra televisione, che si poteva vedere senza problemi nell’area lombarda. Con lui rievochiamo non soli vecchi nomi dello sci elvetico, da Bernhard Russi a Rolland Collombin, da Walter Tresch a Heini Hemmi, senza scordare la Doris De Agostini o la Lise-Marie Morerod, ma anche i vecchi telecronisti della RSI: Paolo ricorda bene l’eleganza al microfono di Giuseppe Albertini e la competenza di Libano Zanolari, ma mi cita anche il nome di Tiziano Colotti, che di sci per la verità si era occupato poco o per nulla. Ma a Verdi non devono essere sfuggite nemmeno le partite di hockey dell’Ambrì e del Lugano…

 

 

Una nuova cantina concepita all’insegna della sostenibilità è l’ultimo tocco di classe che va ad impreziosire la Tenuta Castello di Morcote, autentico gioiello che sorge sulle terrazze a strapiombo sul lago Ceresio, nel paesaggio spettacolare del promontorio dell’Arbostora.
Quando si varca il cancello dell’azienda si entra in mondo che richiama ambientazioni lontane, tenute vitivinicole di grandi proporzioni, come se ne trovano in Francia o in Italia. Ecco, la nostra Toscana, il nostro Piemonte, possiamo ben dire di averlo qui sull’uscio di casa, dove la cura dei vigneti è estrema e i vini prodotti non temono il confronto con le etichette più blasonate del mercato.

Gaby Gianini

Di più: qui si respira anche la storia, perché al di là della presenza del castello – costruito dai Duchi di Milano nel XV secolo – la tenuta prima di passare nelle mani della famiglia Gianini (la comprò il nonno dell’attuale proprietaria nel 1939) era appartenuta a Giorgio Paleari, agronomo e direttore dell’Istituto agrario di Mezzana, uno dei fautori dell’introduzione del Merlot in Ticino, che proprio qui impiantò negli anni ’30 le prime barbatelle del vitigno che avrebbe salvato la viticoltura ticinese flagellata dalla filossera.
“Nonno Massimo raggruppò 150 ettari di terra in questo contesto paesaggistico unico” afferma Gaby Gianini, che rappresenta la terza generazione della famiglia e ha raccolto con competenza e orgoglio un’importante eredità, che intende proiettare nel futuro sposando una visione moderna e rispettosa dell’ambiente.
In questo contesto nasce così la nuova cantina – nel luogo dove sorgeva l’antico centro agricolo – alimentata interamente ad energia solare. Qui tutta la gestione è biologica certificata e da poco anche biodinamica. Utilizzando le tecnologie più all’avanguardia, le uve (la parte destinata a vigneto sul promontorio del castello ha una superficie di 7 ettari, l’azienda coltiva però vigna anche nel Mendrisiotto per un totale di 13 ha) vengono vinificate nel modo più naturale possibile, riuscendo così a fondere insieme innovazione e riti ancestrali.

Pionieri in Ticino già da quasi dieci anni nell’abbandono della chimica in vigna, l’obiettivo della Tenuta Castello di Morcote è di diventare un riferimento nel panorama vitivinicolo svizzero, abbracciando la scelta della sostenibilità e del rispetto della terra.
La nuova cantina vuole diventare luogo di accoglienza aperto all’enoturismo di alta qualità, in grado di competere anche con realtà internazionali e un luogo dove poter vivere un’esperienza diretta e autentica del fare vino, a contatto con la natura e la terra.
È interessante notare che in questo angolo di Ticino la figura femminile gioca un ruolo di primo piano: ad affiancare la proprietaria Gaby Gianini ci sono infatti due giovani enologhe, Emilie Gerbex e Benedetta Molteni, che curano la produzione di bottiglie di pregio come il Castello di Morcote (bianco e rosso), il Fuoco, il Bianca Maria e altre, privilegiando la varietà Merlot, ma anche Cabernet Franc, Chardonnay e Sauvignon blanc.
“Lo stile dei nostri vini si contraddistingue per la ricerca di armonia ed equilibrio. Il nostro obiettivo è creare vini eleganti, longevi, che sappiano parlare dei terroir da cui provengono” afferma Gaby Gianini.